Dal reddito di cittadinanza alla riduzione dell’orario di lavoro
Non appena il Governo ha dato il via libera allo sblocco dei licenziamenti, a più riprese e con insistenza, sono iniziati una serie di raid nei confronti delle persone che vivono con la vendita della loro forza lavoro.
Alle vecchie crisi aziendali si aggiungono le nuove: GKN ha licenziato i suoi operai con una mail, mentre la “nuova” compagnia di bandiera (Ita) ha imposto tagli salariali e circa 8.000 esuberi.
Eppure ci rassicurano che l’economia tira, anzi va a gonfie vele!
Sembra evidente che la spinta reazionaria abbia preso di mira anche i percettori del reddito di cittadinanza e l’escalation ha coinvolto, in un primo momento, i braccianti migranti che non rientravano nei requisiti.
Successivamente, i cannoni della meschina stampa hanno lanciato le palle di frottole contro i precari, i working poors, i tirocinanti, i facchini, gli operai saltuari, le partite IVA con un fatturato da fame, gli addetti alle pulizie nelle stanze di alcuni hotel, pagati 2 euro all’ora, in breve contro coloro che si sono rifiutati di accettare un lavoro, con una paga inferiore al sussidio, sebbene quello stesso lavoro prevedesse mansioni faticose e turni lavorativi full time.
Sull’argomento non poteva mancare la ciliegina sulla torta di G. Meloni, la quale l’ha sparata proprio grossa, paragonando il reddito di cittadinanza al “metadone di Stato”.
Come si fa a paragonare i disoccupati e gli emarginati, ossia le persone che sperimentano un disagio reale, per la riproduzione dei mezzi di sussistenza (un tetto, il cibo, i vestiti, ecc.), ai soggetti che entrano nel vortice dell’eroina? Provate a immaginare!
Per lo meno io vedo l’atteggiamento sbruffone di chi crede che il mondo dipende dal soffio del suo respiro, di chi non ha mai esperito il disagio di essere scartato dai luoghi della produzione.
Ma c’è un risvolto ancora più deleterio nell’utilizzo di quelle parole che formano la triste metafora che richiama coloro che si iniettano l’eroina nelle vene.
Esso consiste nella falsa credenza che la disoccupazione sia una condizione puramente soggettiva, legata alla pigrizia, alla cattiva volontà, all’incapacità di guardarsi attorno e trovare un acquirente sul mercato del lavoro.
Questa filosofia è radicata nella testa di tutti gli individui che pensano di “farsi da soli”, di non dipendere dagli altri, in quanto spinti da un forte delirio di onnipotenza.
Il “metadone” (il denaro) è l’elemento che li mantiene in vita, ma è anche la sostanza che – secondo il giudizio di chi si schiera spudoratamente con la “razza padrona” – li priva della spina dorsale, dato che “il lavoro c’è”, ride in faccia ai disoccupati, mentre questi ultimi, non avrebbero voglia di lavorare. Salvo poi prendersela con i migranti, poiché ruberebbero il lavoro agli italiani.
Un mantra, quest’ultimo, che è intriso di una retorica asfissiante, propagata da personaggi politici che non hanno mai sgobbato fisicamente in vita loro, che non conoscono la fatica e il sudore del lavoro e vivono di rendite di posizione.
E siccome sono abituati a trattare i lavoratori dipendenti come dei sudditi, mentre nutrono ammirazione per i self-made-man, allora si sentono autorizzati a sputare su chi si ribella a orari di lavoro assurdi: o troppo lunghi, con misere paghe, o troppo corti e quindi insufficienti a produrre un reddito per vivere.
Pensate per un attimo alla vita quotidiana di uomini e donne, che si spostano con i mezzi pubblici, da una periferia all’altra di una grande città, impiegando circa cinque ore di viaggio e ottenendo un salario inferiore al reddito di cittadinanza, dato che si tratta di lavori di basso profilo e senza tutele.
Gli conviene andare a lavorare? Certo che no!
Nel tentativo di espandere il lavoro salariato alla massima potenza, si finisce per generalizzare la miseria di ampie fasce sociali, che vivono al di sotto della soglia di povertà.
Assistiamo a una vera e propria proliferazione dei lavoretti, non solo nella Gig Economy, ma anche nel settore turistico e nell’assistenza domiciliare, per rispondere ai bisogni di tutti quei soggetti che non hanno tempo di soddisfarli da soli, in quanto immersi dalla testa ai piedi nell’attività che svolgono.
Tali micro-prestazioni lavorative sono caratterizzate da un’elevata frammentazione nel tempo e nello spazio, vale a dire le attività sono brevi, saltuarie e vengono svolte in luoghi diversi, esse richiedono un atteggiamento iperflessibile, sebbene non diano le più elementari prospettive di continuità nei rapporti lavorativi, mentre si fondano sulle illusioni crescenti dei falsi bisogni espressi da coloro che sono incasellati e oberati nei punti nevralgici e nodali delle reti produttive.
Le innumerevoli varietà di servizi che gravitano intorno alla produzione danno l’impressione che è possibile moltiplicare all’infinito i lavori in cui essi si concretizzano.
Tuttavia, a ben guardare, possiamo osservare che si continua a produrre scarpe, nonostante siano spariti i calzolai e i lustrascarpe, gli “Sciuscià” (shoe-shine).
Un mestiere (un servizio), quest’ultimo, che denota non solo la mancanza di tempo di coloro che hanno una posizione privilegiata e stabile nella stratificazione sociale, ma che ci spinge a riflettere sulla caducità di tanti lavori superflui, i quali se venissero distrutti, non renderebbero la società più povera di prima.
Del resto, cosa succederebbe senza le dispendiose campagne pubblicitarie per la vendita delle scarpe?
Di certo, ci sarebbe ancora bisogno di scarpe, eliminando i costi aggiuntivi legati agli sforzi per la differenziazione della marca, costi che vengono fatti lievitare dai pusher del marketing aziendale.
E a proposito di televendite, ragionando per assurdo, gli stalker dei Call Center, che pur di riuscire a concludere un contratto, sono propensi a sconfinare nelle truffe, non farebbero meno danni, se ricevessero il reddito di cittadinanza?
Ecco, per l’appunto! Abbiamo individuato un altro aspetto lenitivo del reddito di cittadinanza, del reddito di base o del sussidio di disoccupazione, ossia tutte quelle forme di sostegno al reddito che, con sfumature diverse, sono parti integranti delle politiche keynesiane.
Ma tali interventi non escono dallo schema del riformismo dal volto umano, al contrario, essi accettano il capitalismo così com’è, generatore di disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili, depauperamento delle risorse naturali, al cospetto di sovrapproduzione delle merci invendute e in buona parte distrutte, per non far diminuire i prezzi, crisi ambientali e climatiche, eccetera.
Per un altro verso, le misure di sostegno al reddito creano una sorta di riflesso condizionato nei confronti dei loro percettori, nel senso che, da una parte, infondono il gusto di assaporare il tempo di vita liberato dalla catena del lavoro salariato, anche se non gli sembra vero, dall’altra, rinviano il pressante messaggio che il lavoro li attende dietro l’angolo e che torneranno a vendersi nella stessa misura di prima, quindi i disoccupati e i precari saranno presto assorbiti negli imminenti cicli espansivi del capitale.
Nuovi lavori sorgeranno come funghi e basterà raccogliere le opportunità che si presentano!
Ora, penso che sia giunto il momento di esplicare il tertium non datur tra il dolce far niente e lo sgobbare per dieci ore al giorno, condizione, quest’ultima, che innalza il rischio dei morti sul lavoro.
E in questo contesto, ha ragione V. De Seta, quando afferma che lavorare senza parlare è sterile, mentre parlare senza lavorare è ozioso, nel senso che la divisione sociale del lavoro è anche una forma di apprendimento, un patrimonio di conoscenze che non può essere dileguato per i soli capricci dei capitalisti che ostacolano l’emancipazione dal lavoro salariato, relegando i lavoratori e le lavoratici dipendenti in cellette individuali, simili ai compartimenti stagni.
D’altronde, è impensabile che si possa vivere di sole chiacchiere, sebbene tante persone ci sguazzino dentro come i pesci nell’acqua (marketing relazionale, influencer, talk show televisivi e così via).
Attenzione, però! Si tratta di tutta quell’aria fritta, rifritta e deleteria che impedisce un cambiamento del sistema di produzione nel quale siamo immersi, con tutti gli intrecci perniciosi di cui ho accennato qui sopra.
Dunque, se la forma del lavoro salariato continua ad essere prevalente per la riproduzione delle condizioni materiali dell’organismo sociale in cui viviamo, nondimeno assistiamo a una progressiva erosione di questa base o, perlomeno, dovrebbero emergere le difficoltà del capitale a creare nuovo lavoro salariato.
I massicci ricorsi ai sussidi sociali, in tutte le varianti di sostegno al reddito, rappresentano l’incapacità dei capitalisti di reintegrare il lavoro che rendono superfluo mediante l’applicazione di potenti e sofisticate macchine e per via di efficienti e complesse reti organizzative.
Queste ultime variabili, unite alla famelica ricerca di innalzare il livello dei profitti, intensificano il processo di immiserimento che si è delineato a partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso.
Sul piano opposto, continuano a trovare spazio le teorie e le prassi che si fondano sul pensiero magico dei soldi e che potrebbero essere sintetizzate nell’aforisma del mago di Oz: ci alziamo a mezzogiorno e iniziamo a lavorare all’una. Un’ora di pausa pranzo e alle due abbiamo finito. Ci divertiamo molto!
Proprio perché pensiamo che, per il soddisfacimento dei nostri bisogni reciproci non si possa prescindere dallo svolgimento di attività lavorative, allora riproponiamo la tesi della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, senza affogarla, come sostiene D. Greco, con scorciatoie consolatorie, della serie: reddito di base, lavori socialmente utili, decrescita, crescita degli investimenti dello Stato, eccetera.
Il tema della divisione del lavoro necessario, in Italia, è stato esplorato in modo articolato da G. Mazzetti, direttore del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo di lavoro individuale e redistribuzione del lavoro complessivo sociale, ma su di esso si sono espressi altri ricercatori, come, per esempio, P. Alleva, D. Masi, S. Fana, eccetera.
Nel varcare i confini nazionali, invece, ciò che mi ha spinto a riprendere quest’argomento, è stata una recente ricerca di Stan De Spiegelaere e Agnieszka Piasna, a cura del European Trade Union Institute e sostenuta da EPSU.
Gli autori, oltre a far riferimento alla tendenza storica della riduzione dell’orario di lavoro, nel corso dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, sottolineano anche la controtendenza che si è delineata a partire dagli anni Novanta del ventesimo secolo.
Tracciano, inoltre, una mappa degli esperimenti che sono stati effettuati in diversi paesi europei, nella direzione della contrazione dell’orario di lavoro ed enucleano le implicazioni positive che potrebbero sorgere, se riuscissimo a generalizzare tali prassi.
Tuttavia, forse, il lettore attento converrà sul fatto che non siamo così ingenui da credere che ci troviamo di fronte a una strada larga, dritta e spianata, semmai potremmo dire che davanti alle nostre capacità si pone il problema di come percorrere la strada sterrata, tortuosa e piena di ostacoli, che si schiude oltre i pensieri che ricadono nel pantano dei luoghi comuni.
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