Non ci sono dubbi che in Italia, ormai da tempo, dilaghi una mentalità securitaria e punitiva, che rischia di sfociare in un vero e proprio Stato di Polizia. Una mentalità che parla alla pancia del Paese, non certo alle sue capacità razionali.
Quell’attitudine al discernimento tra Stato di legalità e Stato di diritto che, studiato anche nelle aule universitarie, dovrebbe caratterizzare una società democraticamente evoluta.
Ed è certamente vero che, sulle questioni relative alla giustizia, e al carcere in particolare, ci sia scarsa conoscenza e disinteresse tra i cittadini.
Questi dati, però, non sono il semplice frutto di una pigrizia intellettuale generalizzata e standardizzata. Non ci si arriva per caso. Sono il risultato di un processo politico-ideologico involutivo, in corso da quaranta e più anni nel nostro paese.
Va considerata, ad esempio, la pervasività del sistema mediatico-informativo che, oramai, ha ristretto ogni spazio alla possibilità di esprimere un pensiero alternativo sui temi riguardanti il carcere e le sue applicazioni.
Un sistema però, quello mediatico, a sua volta plasmato da una cultura politica tutta compressa sull’ideologia forcaiola e tarata sull’idea vendicativa della pena.
La verità è che, anche a “sinistra” – se non soprattutto nella sedicente “sinistra” – in questi anni si è imposta la concezione del carcere afflittivo, della giustizia come strumento di lotta politica e, infine, come dispositivo di classe.
Questo, sin dai tempi dell’articolo 90 e della legislazione speciale ed emergenziale, adottata negli anni ’70.
Una legislazione alla quale il Pci di Berlinguer aderì con entusiamo – comprese le torture ai danni delle compagne e dei compagni della lotta rmata – pur di sconfiggere quello che si definì il “fenomeno terrorismo”.
Quell’emergenza è divenuta poi – e qui sta il vero punto di rottura – consuetudine giuridica e normalità sociale. Con tutte le torsioni e le esasperazioni normative che ne sono seguite.
A cominciare proprio dal 41bis e dall’ergastolo ostativo: dispositivi le cui regole e le cui applicazioni si sono via via venute configurando come pratica affine alla più disumana forma di tortura. Psicologica e corporale.
L’idea, tutta torquemadista, del carcere duro e afflittivo, supplizio da scontare fin quando il condannato non si penta e non si redima – facendo per di più i nomi dei suoi complici, da gettare in una cella angusta al suo posto – è quanto di più reazionario e pretesco si possa concepire, in uno stato che dovrebbe caratterizzarsi invece per laicità e rispetto liberale dei diritti, umani e costituzionali.
Altro che “progressismo”, insomma, e “liberazione dalle catene” che tengono schiavo il proletariato!
La “sinistra“, quella che semplicemente siede a manca dell’emiciclo parlamentare, ha sempre più assunto, negli ultimi trent’anni, atteggiamenti discriminatori, marginalizzanti e colpevolisti nei confronti dei ceti subalterni – quelli più a rischio, per ovvie ragioni economiche, di incappare in pratiche extra legali – e di criminalizzazione verso qualunque dissenso.
Con l’alibi di una pelosa “pace sociale” che possa rassicurare la borghesia imbelle, flaccida e annoiata della nostra penisola, ha avallato decreti liberticidi e politiche securitarie di stampo a dir poco conservatore.
Dovrebbe sapere, invece, quella parte del paese che si richiama a categorie progressiste, che il degrado e la criminalità – micro o macro che sia – vanno combattuti con ben altri strumenti, fuori dall’illusione che bastino esclusivamente la galera e la repressione.
Come dovrebbe comprendere che una visione Law & Order e tolleranza zero della convivenza “civile” rappresenta il presupposto per la cancellazione di ogni diritto politico.
La Legge e l’Ordine non ammettono manifestazioni, scioperi, contestazioni. In realtà, non ammettono neanche una sinistra. Rivoluzionaria poi, meno che mai.
Si consideri, ad esempio, la regolamentazione, quanto mai restrittiva, del diritto di sciopero vigente in Inghilterra.
O si veda – altro esempio eclatante – la risoluzione approvata negli Usa (patria del Law & Order) che criminalizza “il socialismo”.
E qui in Italia, sempre pronta a recepire le novità anti-popolari implementate negli Stati Uniti, c’è il rischio che si sia sulla buona strada per produrre uno scempio legislativo di tal fatta.
Qualche esponente della “sinistra“ parlamentare, pertanto, prima di confermare la validità e la sacralità del 41bis, dovrebbe rifletterci seriamente!
Ad ogni modo, negli anni ’70 – epoca di grandi rivolgimenti sociali – intorno alle tematiche del carcere, inteso come laboratorio di controllo sociale; a quelle della giustizia come funzione politica; o della psichiatria, quale forma di sorveglianza e normalizzazione; si infiammava spesso un dibattito molto intenso.
Il cittadino, anche quello più disattento, ne veniva necessariamente investito ed era portato, anche solo per inerzia, ad informarsi.
Erano presenti posizioni anche molto sfumate nella comunità, dove senz’altro non dominava il “pensiero unico”, forgiato dalla più feroce dottrina giustizialista.
Se si è giunti, viceversa, a questo punto di dismissione culturale e di inconsapevolezza collettiva, lo dobbiamo, dunque, soprattutto alla nostrana e sedicente “sinistra“.
Una “sinistra” che ha proceduto ad un sistematico smantellamento ideologico su questioni dirimenti, spesso facendo carta straccia proprio dei principi costituzionali nati dalla Resistenza.
Quelli, per intenderci, celebrati con melensa retorica dal Benigni di turno, ogni volta che il Potere lo manda in televisione a decantare le sue prerogative “democratiche”, dietro cui perpetrare qualsivoglia scempio politico.
Una “sinistra“ che ha finito per intestarsi “questioni morali”, “urbani decori” e statolatria coercitiva, saldandosi con una magistratura prevaricante e che ha spesso esondato dalla costituzionale divisione dei poteri democratici.
Una “sinistra” che ha abdicato alle sue ragioni, consegnando la bandiera del garantismo in mano agli avversari, i quali ne hanno derivato uno strumento politico di difesa ad personam e per i ceti dominanti, secondo il più triviale “doppio standard”.
In poche parole, la “sinistra“, innamoratasi dello Stato borghese, del suo potere giudiziario e dei suoi magistrati, cui ha lasciato ampio mandato giurisdizionale e politico, ha prodotto una modificazione genetica profonda delle sue originarie radici.
Il De Magistris che di recente ha evocato la “contiguità tra anarchici e mafiosi”, ne è un esempio eclatante. Le sue ultime dichiarazioni sul caso Cospito sono state raggelanti…
Sarebbe pertanto auspicabile una riflessione profonda, sui temi della giustizia e del carcere, proprio in quella “sinistra” – liberal o radicale, ma invariabilmente compatibilizzata – che non di rado dà prova di aver smarrito gli storici princìpi, le matrici culturali.
Una riflessione tesa a ristabilire priorità e capacità di analisi della realtà; nonché a farsi carico della giornaliera lotta per la sopravvivenza che le masse – le quali dovrebbero pur sempre rappresentare il referente di classe di una sinistra che abbia mantenuto una propria identità – si affannano ad affrontare, nel tentativo di non annegare nel mare agitato dell’esistenza e della crisi.
Una riflessione che prenda l’abbrivio proprio da quei diritti sociali e dalle questioni che riguardano i bisogni materiali e la sussistenza quotidiana di ogni individuo, lasciati nelle mani di una destra liberista e/o parafascista, in nome di tiepide battaglie per i diritti civili.
Sono proprio i diritti sociali, infatti, con il loro ineludibile corollario di rapporti di produzione e di forza, a costituire il terreno di rivendicazione e di lotta, di dissenso e di scontro, che le classi lavoratrici, pur timidamente, provano a mettere in atto contro le politiche di austerità e di macelleria sociale, imposte dall’Unione Europea a trazione neoliberista.
Terreno che la “sinistra” italiana ha da decenni definitivamente abbandonato, piegandosi ai diktat dei centri di potere finanziario, internazionali ed europei, e finendo con l’abbracciare filosofie reazionarie di controllo sociale, di criminalizzazione del dissenso e della povertà, di stigmatizzazione e di punizione verso comportamenti non compatibili con il conformismo dominante e il politicamente corretto.
Finendo, così, con l’invocare repressione, “certezza” e “severità” della pena, ergastolo ostativo e 41 bis.
L’aver rinunciato alla dialettica sociale e al conflitto ha, inevitabilmente, condotto ad un’egemonia delle tematiche di destra e ad una saldatura del gramsciano blocco storico in chiave controriformista e, a dir poco, conservatrice.
Saldatura in virtù della quale le relazioni umane, nella sfera della struttura economica e sociale, vengono sempre più ridotte ad un interfaccia tra variabili di merci; mentre la sovrastruttura ideologica, culturale e giuridica si impronta alla più retriva dottrina liberal-liberista, impastata di corporativismo e mediazione degli interessi di classe, nella sfera del lavoro; pacificazione e memoria condivisa sul piano del controllo biopolitico; svago depensante in ambito culturale; e tecnocrazia carceraria inq uello più brutalmente poliziesco.
Il caso Cospito è un’istantanea paradigmatica di quanto fin qui espresso.
Anarchico, anticapitalista, per nulla incline al compromesso con lo Stato, con la società dei consumi e il dominio della cultura liberal-borghese, decisamente non pacifista, non disponibile alla dissociazione e al pentimento, Alfredo ha sicuramente commesso un crimine, secondo le leggi vigenti: la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi.
Per quel crimine fu condannato ai dieci anni che ha fin qui qui già scontato.
Ma l’ergastolo ostativo e il 41 bis gli sono stati dati in seguito, per una carica di esplosivo piazzata, nel 2006, davanti alla Scuola Carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo.
Per quell’atto, fu prima condannato, dalla Corte d’appello, a 20 anni di reclusione con l’accusa di “strage” (come avviene sempre per ogni reato commesso con l’utilizzo di esplosivo, indipendentemente dai danni fisici provocati a persone; naturalmente le sentenze poi “articolano” l’entità dell’eventuale condanna in base proprio a quei danni alle persone).
Una “strage” senza morti né feriti, in genere, comporta una pena inferiore a quella per la “gambizzazione”…
Ma la Cassazione andò oltre, cacciando dal cilindro il suo coniglio/cavillo giuridico. Strage contro la sicurezza dello Stato, nientemeno!
Un reato che prevede la pena dell’ergastolo ostativo e che non permette di godere di alcun beneficio.
Un reato – e qua istituzioni e magistratura hanno toccato veramente l’apice del delirio giustizialista – che non fu contestato neanche agli accusati per le stragi di Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Stazione di Bologna, ecc. Che certo qualche “effetto distorsivo” rilevante, sulla vita politica e istituzionale del Paese, lo ebbero. Certo più del “botto nella notte” di Fossano…
E allora, appare evidente come la motivazione di una simile condanna poco abbia a che fare con la fattispecie di reato. E molto, invece, con una ragione squisitamente politica e ideologica.
Alfredo è un anarchico, un nemico dello Stato e dei suoi interessi economici. Un eretico che non si adegua al dogma del Profitto.
Il suo è, prima ancora che un reato contro la persona, un reato di opinione. E perciò viene condannato all’isolamento e al silenzio perpetuo!
Vergogna, insulto del diritto, scempio della Costituzione, odio di classe, censura e vendetta. Sono solo alcune delle parole che ci vengono in mente. Parole che sollecitano comprensibile rabbia, vista la palese sproporzione tra “fatti” ed entità della pena.
La vergogna di cui si è macchiato uno Stato di legalità parafascista è stata confermata in questi giorni dal Guardasigilli, Carlo Nordio.
Il quale ha dichiarato: «Cospito deve restare al 41bis. Ha infatti istigato la galassia anarchica ad azioni violente e il pericolo di comunicazioni dal carcere continua a sussistere». Nessun dubbio!
Persino il Procuratore generale della Cassazione – il vertice apicale della “pubblica accusa” sul piano nazionale – è stato costretto a far notare che “mancano prove e presupposti“, per una simile conclusione. Un’opera di “direzione” (questa sarebbe peraltro la ragione dell’esistenza del 41bis, comunque una tortura) è cosa ben diversa dall’esser diventato l’icona di molto diverse manifestazioni di solidarietà…
Il tutto, mentre Alfredo è in sciopero della fame da mesi e oramai, giunto allo stremo delle forze, si trova, da qualche giorno, confinato in una stanza di ospedale. In pericolo di vita, per ammissione dello stesso ministero.
Si tratta chiaramente di una pena di morte differita e lenta, comminata da gente che si richiama – in pubblico – ai valori della cristiana compassione, della pietà e del perdono.
Gente da sacrestia. Democratici e cristiani a chiacchiere. Boia feroci nei fatti. Gente sempre pronta a sbandierare i diritti umani, civili e politici quando a violarli, presumibilmente, sono gli altri.
E la “sinistra”, cosa ha fatto per Cospito? Se si eccettuano poche realtà veramente antagoniste, praticamente nulla.
Tra bizantinismi linguistici, ipocrite difese delle istituzioni, moralismi perbenisti, squallidi cerchiobottismi e appelli mistificatori per la riduzione degli aspetti più aspri della detenzione, questa galassia necrofila non ha trovato di meglio che confermare la giustezza del 41bis.
Misura imprescindibile per combattere i “nemici del sistema”. Vale a dire anarchici, comunisti e mafiosi (i quali ultimi, di frequente, hanno semmai terminali influenti a livello di governo!). Tutti insieme allegramente, alleati in una presunta “cospirazione contro la democrazia” italiana.
Al grottesco e al ridicolo non c’è mai fine!
Per la “Legge democratica”, infatti, non sussiste differenza alcuna. Sono tutti criminali pericolosissimi per la società. E come tali vanno sbattuti a vita dietro le sbarre. Da Nadia Lioce a Messina Denaro, passando per lo stesso Cospito.
In isolamento perenne. Chiusi in una stanza minuscola, al buio e perlopiù sotterranea. Ventitré ore al giorno. Senza poter parlare con nessuno, se non con chi subisce lo stesso trattamento e sempre preventivamente scelto dall’Amministrazione Penitenziaria.
Senza poter scrivere. Senza poter leggere quotidiani o guardare notiziari in Tv. Letture e Televisione – da vedere in un’apposita saletta per sedicente “socialità” – peraltro decise e gestite dalle stesse autorità carcerarie.
Distorsioni sensoriali, afasia, alterazioni percettive, difficoltà ad intraprendere un dialogo o a recepire informazioni. Sono queste le conseguenze cui può condurre il regime del carcere duro.
Una tortura psicologica e fisica. Un annientamento della persona. Un annichilimento della dignità individuale.
Ma arrivati a questo punto, ci sembra già di sentirle le obiezioni dei benpensanti, di destra o di “sinistra”: chi ha ammazzato non merita pietà!
Specie le belve che hanno ucciso il piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido; o chi ha commesso gli attentati di Via D’Amelio o di Capaci.
Ma allora mi chiedo e vi chiedo: perché le istituzioni non hanno punito, con la stessa durezza e crudeltà, i loro uomini che hanno partecipato alla stagione delle Stragi di Stato? Perché non punire col 41bis i politici che si sono macchiati di contiguità con la mafia (una marea, stando alle cronache giudiziarie)?
Lo Stato si autoassolve e si amnistia motu proprio? Evidentemente sì. È la Legge dei Padroni. Da sempre!
Ma soprattutto, una domanda mi affiora alla mente, fondamentale.
Mi chiedo se uno Stato che si richiami a principi democratici, liberali e di progresso, possa ridurre il suo complesso di norme, i suoi organi di polizia e il suo potere giudiziario ad una sorta di apparato emulativo della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Un’Inquisizione trecentesca, punitiva e vendicativa, per i “reati contro Dio”.
Uno Stato moderno non dovrebbe richiamarsi a principi di equità della pena e di rispetto della dignità del detenuto? Non dovrebbe mirare al recupero e al reinserimento nella società del condannato?
Mafioso, comunista o anarchico che dir si voglia (e non ci sfugge certo la differenza…).
Il fine pena mai, soprattutto nelle condizioni di tortura previste dal 41bis, rappresenta, a mio modesto avviso, una sconfitta per le istituzioni “democratiche”.
Una società non dovrebbe sconfiggere il crimine attraverso strumenti politici e culturali, e non solo ricorrendo al carcere e alle pene? E qualora vi ricorra, può comportarsi alla stregua di una dittatura dal carattere nazistoide? Non dovrebbe, detto altrimenti, mostrarsi “migliore” di coloro che reprime?
La nostra Costituzione, all’articolo 27 ancora recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Ma la Costruzione, evidentemente, serve solo a fare spettacolo e a far guadagnare il cachet al Benigni festivaliero…
D’altronde, se n’è fatta carta straccia dagli anni ’70. Dai tempi delle Leggi Speciali, come si ricordava più sopra. Lo Stato si è posto, da allora, alla stregua di una divinità arcaica, vendicativa ed assetata di sangue.
Uno Stato etico, al di sopra della natura umana e al di là del bene e del male. Le cui decisioni arbitrarie sono insindacabili e incontestabili. Uno Stato-Moloch che dispensa galera, torture e morte. Ma lo fa, ovviamente, “per il bene della società“.
Un “bene comune” sempre più oligarchico e ingiusto, di cui i cittadini faticano a comprendere il senso.
Afflitta da statolatria, la sedicente “sinistra” italiana si è ben integrata, soprattutto in questi ultimi trent’anni, nel nuovo clima culturale e politico, repressivo e forcaiolo. Un occhio ai sondaggi, l’altro al portafoglio…
Ma la vicenda Cospito comincia ad aprire contraddizioni larghe come voragini, non solo tra le pieghe dello Stato, del sistema mass-mediatico e della società, ma soprattutto nel corpo della stessa “sinistra”.
Rischiando, se l’epilogo dovesse essere fatale, di pesare come un macigno sull’ambigua coscienza dei nostri progressisti, liberal o radical che siano.
Non si possono, infatti, continuare ad invocare i diritti umani, civili e politici per i dissidenti e i prigionieri di altri paesi, che si definiscono “autocratici”, “teocratici” e “antidemocratici”, e poi fottersene beatamente all’interno dei propri confini.
Alfredo Cospito, con la sua battaglia, sta portando alla luce proprio questa schifosa ipocrisia borghese, questa doppia morale che alberga tra le fila dei nostri sinistri e ministri.
Una battaglia per tutti i detenuti segregati nelle celle di tortura del 41bis. Chiunque siano. Una battaglia di civiltà e umanità a rischio della propria vita.
La bandiera dei diritti civili, umani e politici non può essere fatta a brandelli – sembra dirci Alfredo – per convenienza e opportunismo politico, ogni qual volta le istituzioni “democratiche” ritengano, arbitrariamente, che a prevalere debba essere la Ragion di Stato. Ragione assoluta e inflessibile, capace di prevaricare lo stesso diritto all’esistenza di un cittadino, ancorché detenuto.
Orbene, “il popolo della sinistra” tutto torni ad interrogarsi sulle proprie responsabilità, nei confronti dell’intollerabile clima d’odio e dell’aberrante giustizialismo che si è diffuso ultimamente in Italia.
Perché se è vero, come si diceva al principio, che i cittadini peccano d‘indolenza, si disinteressano alle questioni relative alla giustizia e al carcere, ritenendo che chi vi venga rinchiuso se lo sia tutto sommato meritato, è ancor più vero che, se li si lascia senza riferimenti politici e culturali, diventa inevitabile che si adeguino al conformismo dilagante: “buttate via la chiave!“. Finché non tocca a loro…
Ma, d’altra parte, quel conformismo legalitario viene pianificato sugli scranni di un Parlamento che, oramai, risponde a ben altre logiche e a ben altri poteri, che sempre meno hanno a che fare con la delega di quegli stessi cittadini.
Poteri principalmente economici e finanziari. Come l’Unione Europea, la Bce, il Fondo Monetario Intenazionale.
O le banche. La JPMorgan, ad esempio, che da tempo richiede lo smantellamento delle Costituzioni nate dalla Resistenza al nazifascismo.
Di fronte al montante e sempre più preoccupante clima d’odio che si respira nel Paese; al cospetto di una cultura forcaiola, oscurantista e poliziesca, che rischia di degenerare in una riduzione sempre più marcata dei già angusti spazi democratici; dinanzi ad un’ondata repressiva che molto ricorda i paesi del Sudamerica; si sente la necessità di una sinistra che torni a praticare dissenso, antagonismo e conflitto di massa.
Una sinistra comunista che torni a riappropriarsi dei propri principi fondativi: giustizia sociale, libertà di pensiero, diritto alla critica, uguaglianza di fronte alla legge, equità economica.
Perché i diritti civili senza diritti sociali sono solo un afflato platonico. Illusione metafisica. Misticismo.
I comunisti tornino nelle piazze con la propria rabbia. La propria necessità di conflitto. La loro cultura di libertà!
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antonio
un bel grande articolo che tocca un po tutti i punti e le questioni del momento politico che viviamo. Grazie Vincenzo. sei un grande compagno e un grande giornalista. ti abbraccio