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In Francia protestano. In Italia facciamo concertoni paludati

Chi avesse, l’altro giorno, Primo Maggio, saltabeccato un po’ tra televisione e Rete, stampa e propaganda, notizie dall’alto e cronache dal basso, avrebbe certamente colto alcune affinità e divergenze tra la Francia e noi.

Differenze notevoli.

Di qua un popolo stanco e senza conflitto, si direbbe quasi arreso; di là un sussulto poderoso di lotta, gigantesche manifestazioni di popolo, simbologie potenti.

Il Primo Maggio, festa dei lavoratori, è stata per noi italiani la festa di una provocazione di governo, quella che ai lavoratori sottrae ancora più diritti e contrabbanda come conquista salariale una mancetta semestrale già divorata dall’inflazione.

E dietro questo paravento per allocchi, niente più sostegno a migliaia di famiglie in crisi, nuove bastonate alla povertà e nuove precarizzazioni, cioè una rapina da parte di chi detiene la ricchezza ai danni di chi la ricchezza la produce con il suo lavoro (o lavoretto).

Prevengo le obiezioni: le due situazioni, quella italiana e quella francese, non sono direttamente sovrapponibili, perché lassù la protesta del mondo del lavoro si intreccia con la rivolta anti-macroniana sulla riforma delle pensioni, che ha contro la stragrande maggioranza della popolazione (il settanta per cento, dicono i sondaggi).

Resta però, piuttosto evidente, la differenza: da dodici settimane i francesi lottano senza tregua contro un governo e un presidente visibilmente inadeguati, mentre qui, dove le condizioni del lavoro sono ancora più deplorevoli e i salari più fermi, la massima espressione di antagonismo sembrava il gran concertone di Roma.

Istituzionale, paludato, vagamente ribellista a parole, dove addirittura a un discorso contro le spese militari e i padroni della guerra (grazie a Carlo Rovelli) i conduttori si dolevano della mancanza di contraddittorio (chissà, l’anno prossimo inviteranno Crosetto, o addirittura un paio di carri armati).

Insomma, pur facendo le debite proporzioni, le differenze saltano agli occhi. Anche simbolicamente. Pensate se in Italia, a una manifestazione di lavoratori, qualcuno portasse in piazza una ghigliottina di cartone (come abbiamo visto fare a Lione, a Parigi e in altre città francesi), o bruciasse un pupazzo con le sembianze del capo del governo.

Apriti cielo! E giù alti lai e frignamenti e scandalo sulla violenza, gli anni di piombo, l’estremismo, dove andremo a finire, signora mia! E questo è il frutto di anni e anni e anni in cui il conflitto sociale è stato demonizzato, escluso, insultato in lungo e in largo, criminalizzato, trasformato in reato da tutte le forze parlamentari, destra e “sinistra” unite contro ogni lotta.

Eppure qualche affinità tra Italia e Francia, a guardare la giornata di ieri (primo maggio, ndr) si poteva cogliere.

Re Macron che per muoversi per il Paese si circonda di migliaia di guardie, e quando i francesi scoprono la casserolade (manifestare con le pentole per fare rumore) arriva al grottesco di vietare per decreto di scendere nelle strade con padelle e pignatte: il trionfo del ridicolo.

Non diverso, a pensarci, dalla sora Meloni che passeggia magnificandosi per le sale di Palazzo Chigi, una piccola Versailles, prima di entrare nella grande sala del Consiglio dei ministri, dove cicisbei e lacchè la aspettano per il grande gesto del lancio delle brioches, pardon del cuneo fiscale, ai lavoratori.

Bel video, mancavano solo le parrucche incipriate e il gran ballo di corte, ma chissà che non l’abbiano fatto dopo, a telecamere spente, per festeggiare un nuovo schiaffo ai lavoratori italiani.

 *  da il Fatto Quotidiano del 3 maggio, rubrica “Piovono pietre

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