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Per il governo l’interesse nazionale è solo quello delle imprese

“Taglio del cuneo, da 45 a 100€ in più per i redditi fino a 35 mila euro: le simulazioni” (Corriere della Sera). “Meloni, il video dopo il cdm: ‘Il taglio delle tasse più importante da decenni’” (Corriere della Sera). “Pacchetto lavoro: quanto vale il taglio del cuneo fiscale? Fino a 100€ in più in busta paga” (Il Sole 24 Ore). “Le simulazioni: quanto vale il taglio del cuneo fiscale e quali buste paga saranno più pesanti” (La Stampa).

A leggere le prime pagine dei principali quotidiani italiani (oggi solo online), l’operazione Meloni è pienamente riuscita. L’obiettivo del Governo era quello di imporre il prisma attraverso cui leggere il dl Lavoro approvato il 1° maggio in Consiglio dei Ministri. E ce l’ha fatta. Oggi tutti parlano di ciò che il Governo vuole che si parli: il taglio del cuneo fiscale.

I media si concentrano su calcoli e simulazioni (anche La Repubblica titola “Nuovo taglio del cuneo, ecco le simulazioni: da 50 a 100 euro in più al mese”) e anche chi si spinge in qualche critica lo fa perché ritiene che il taglio sia insufficiente (Scotto del Pd rimprovera a Barelli di Fi che in media sia di soli 15€ al mese) e/o temporalmente limitato (“Ma lo sconto parte a luglio e dura solo fino a dicembre” – La Stampa).

La verità è che la destra mediatica e il progressismo mediatico condividono il punto di fondo: il taglio del cuneo fiscale è cosa buona e giusta. E lo stesso vale per i partiti “progressisti”: il 22 dicembre 2022, il Pd rimproverava il Governo e la maggioranza per non aver approvato l’emendamento che prevedeva proprio un taglio del cuneo fiscale. Nelle parole di allora di Serracchiani e Pagano “tagliare le tasse per i lavoratori avrebbe significato una busta paga più pesante in un momento particolarmente difficile per l’alta inflazione”

Nessun attore mediatico o politico, insomma, dice che il taglio del cuneo fiscale costituisce un aiuto indiretto alle imprese. Il Governo aumenta gli stipendi senza che le imprese debbano aumentare gli stipendi. Così i profitti che molti hanno accumulato anche in tempi di crisi possono rimanere tranquillamente in cassaforte. Inoltre, in questo modo Meloni cerca anche di disinnescare possibili mobilitazioni dei lavoratori per ottenere aumenti di stipendio a fronte di un’inflazione che nel mese di aprile è cresciuta di nuovo, raggiungendo l’8,3%. E su cui, sia detto en passant, il Governo tace.

In secondo luogo, se è vero che i lavoratori potranno avere qualcosina in più in tasca – che non fa mai male – è altrettanto vero che si tratta di soldi che già gli appartenevano e che il Governo avrebbe dovuto usare per quello che è il “salario indiretto”: scuole, ospedali, infrastrutture, trasporti, ecc. Il taglio del cuneo significa dunque che ci saranno meno soldi per questo “salario indiretto”. Chi paga più di tutti servizi sociali sempre più allo sfascio? Naturalmente la maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici, quelli che il privato non possono permetterselo né per un’operazione, né per una visita, né per un master. Con una mano il Governo dà, con l’altra toglie. Ai lavoratori. Perché alle imprese si dà e basta. A fondo perduto per di più.

Ma, soprattutto, se tutti parlano del taglio del cuneo fiscale, dimenticano il segno complessivo del dl Lavoro, che, paradossalmente, fa venir fuori più la stampa straniera che quella italiana.

Se lo spagnolo El País si concentra sul metodo e le tempistiche (“Meloni sfida i sindacati con una riforma del lavoro per decreto in pieno Primo Maggio”), il francese Le Monde titola: “Meloni sceglie il Primo Maggio per tagliare i minimi sociali”, dando lo spazio più ampio non al taglio delle imposte, bensì alla “soppressione del reddito di cittadinanza che aveva fatto uscire dalla povertà un milione di persone”.

Il britannico Financial Times, quotidiano filo-imprese, parla di “misure che aumentano la flessibilità nel mercato del lavoro”, soffermandosi dunque sulla liberalizzazione dei contratti a termine. Esattamente ciò che chiedevano da tempo le imprese – insieme a ulteriori incentivi che puntualmente arrivano (da sgravi contributivi del 100% che arrivano fino a un massimo di 8.000€ per ogni assunzione, fino a nuovi regali per l’assunzione dei “neet”, pari a un massimo del 60% della retribuzione lorda) – ed esattamente l’opposto di quanto vorrebbero lavoratori e lavoratrici immersi da anni in uno stagno di precarietà e bassi salari.

I desiderata delle imprese trovano sempre soddisfazione: più precarietà, più regali e, of course, abolizione del reddito di cittadinanza. Quelli dei lavoratori mai: nessuna lotta alla precarietà, nessun rafforzamento dell’Ispettorato del Lavoro e dei controlli per tutelare salute, sicurezza e regolarità delle buste paga, nessuna mossa o parola per spingere al rinnovo dei contratti collettivi nazionali scaduti in alcuni casi da anni. E, ovviamente, niente di niente in tema di salario minimo.

Col Decreto Lavoro il Governo Meloni conferma che per l’estrema destra di governo il tanto citato “interesse nazionale” non è altra cosa che l’interesse delle imprese. Uno schiaffo in faccia ai lavoratori e alle lavoratrici che producono la ricchezza del nostro Paese.

*portavoce nazionale di Potere al Popolo

 

 

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