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Quando c’erano i compagni proletari nella vecchia e nuova sinistra italiana

«Proletari di tutti i Paesi unitevi» fu il “grido di riscatto” che già a metà dell’Ottocento assurse in Europa da parti delle classi storicamente subalterne.

Fu il riferimento portante dei nascenti movimenti dei lavoratori che sul piano sindacale e politico iniziarono ad aggregare: i laceri, i consunti, gli affamati, gli sfruttati, chi viveva nelle topaie, nelle città e nelle campagne, ridotto in schiavitù!

Fu questa l’enunciazione portante de Il manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels rivolta a «chi possiede solo la propria forza lavoro». In etimologia: «chi non possiede altri beni oltre i propri figli».

Una definizione divenuta ormai “fuori moda” nella dialettica in uso, già da parecchi anni. In Italia, in specie, dove impazza la mistificazione del significato delle parole, e in particolare, con la “modernizzazione” artefatta e imposta, fatta diventare dominante, sono stati quasi cancellati i segni, i significati, le differenze e i contenuti, caratterizzanti la struttura socio-economica.

Quindi riguardo la distribuzione delle ricchezze, il lavoro, a partire dal peso e dalla composizione delle retribuzioni – salari e stipendi – con i ritmi alienanti, il non-diritto alla difesa della salute, della vita, dell’integrità fisica (vita, infortuni, gravi malattie) nei luoghi delle attività.

Tutti gli strumenti di informazioni “generalisti” – nelle vecchie e nuove fatture, sempre più invasivi, incomprensibili e censuratori – costantemente “proiettano” un modello di vita tranquillo, soffice, più che mai sufficiente nell’esplicitazione delle necessità quotidiane, dove per lo più contano, sempre ben messi in evidenza, gli “effetti speciali” dei Soggetti ben possidenti, e le trame della vita personale, sempre alla ricerca di “emozioni”.

E’ come se tutto, nel processo del percorso della vita, fosse divenuto una perenne e gigantesca pubblicità/propaganda che, in maniera incessante e robotizzante, si è impadronita di tutti gli spazi visibili, perennemente nel tempo che scorre, e quindi della nostra vivibilità.

I lavoratori dipendenti – moderno proletariato, avviluppati nelle tante articolazioni del loro sofferto impegno quotidiano, nello scenario sociale assunto come modello e nelle immagini costantemente “profuse” – a malapena appaiono soffusamente come vacue ed inutili comparse.

Sparite (poiché dismesse) le grandi fabbriche, e fortemente ridimensionate le rilevanti aggregazioni politiche, sindacali e sociali, che hanno caratterizzato la fase storica precedente, il lavoro dipendente è rimasto, sempre bellamente e ampiamente presente.

Per quanto in molti casi abbia cambiato pelle, poiché “esteticamente” modificato e parzialmente meglio istruito, ma sempre sottoposto al comando e alle ferree regole, scandisce la quotidianità della stragrande maggioranza dei cittadini.

Portando dietro, quasi nascoste, le grandi contraddizioni che si sono accumulate date le linee guida del capitalismo italiano (e della globalizzazione): salari e stipendi tra i più bassi in Europa, perdita costante di potere d’acquisto, notevole incremento delle irregolarità contrattuali, precarietà e insicurezze, sfruttamenti, quindi grande crescita della povertà.

Stante gli ultimi dati ufficiali (2021) 5,6 milioni di persone si trovano in povertà assoluta e 8 milioni in povertà relativa. Significa non potere cibarsi del minimo indispensabile, specie nelle aree del Sud. Tutte le nostre città sono piene di “derelitti”, uomini e donne, che sono costretti ad avere come “residenza” il luogo aperto in piazze, strade e portici. Senza neanche un tetto sulle spalle.

Una situazione indegna che si è notevolmente incrementata nel corso di questi ultimi decenni, tipico delle immagini della metà dell’Ottocento: è il “sottoproletariato” che vive nell’assoluta indigenza, nell’ignavia e nell’indifferenza comune.

Il proletariato c’è sempre, ma è stato nascosto! Fra l’altro molti lavori umili, quelli dello sfruttamento intenso e strutturalmente sottopagati, sono ormai fatti da diversi milioni di immigrati, uomini e donne, quasi invisibili nella propaganda giornaliera, tranne biechi moventi di stampo razzista, finalizzati anche ad amplificare a dismisura alcuni eventi di cronaca.

Eppure, in tempi non molto lontani, i compagni proletari hanno rappresentato la classe sociale propulsiva, il nucleo costitutivo delle “vecchia” sinistra – PCI – e della gran parte delle organizzazioni sociali e politiche, ma anche della nuova sinistra, nata negli anni sessanta del secolo scorso e ha contribuito a caratterizzare lo scenario politico e di lotta italiano.

In questo momento per le nuove generazioni, a parte noiosi libri di analisi politica – sociale e un po’ di narrativa impegnata, a parte “vecchie” filmografie e un archivio di canti e musiche (considerate per lo più fuori uso e fuori moda), non ci sono coinvolgenti approfondimenti di insegnamento e riflessione sul “mondo che fu”.

Mi soffermo su due ridotte e significative “varianti” che nel mare grande della storia hanno tentato di ricostruire, con le immagini, il dialogo e lo scritto, il cuore motore compositivo della sinistra italiana.

Per primo il recente film di Nanni Moretti «Il sol dell’avvenir»Per secondo lo scritto di Daniele Barbieri (ex militante di Lotta Continua, poi giornalista al quotidiano «il manifesto» e alla rivista «Carta» e attivo nei movimenti sociali) pubblicato sul suo sito nell’ottobre 2016 con il titolo «Ciao Pelle, avevamo ragione noi».

Il film di Moretti è impiantato a Roma a metà degli anni cinquanta (1956). Il regista si è posto l’obiettivo di inserire una “ideale” variante al reale percorso degli eventi e, quindi, di supporre un diverso tragitto del PCI se il partito non avesse sostenuto l’Unione Sovietica nella violenta repressione dei cambiamenti sostanziali (nascita della democrazia) nel sistema politico e sociale ungherese.

Nel contesto di questo “irreale” ma fondamentale movente, nel film, in maniera soffice, si ricostruiscono gli assi portanti del partito.

Oltre due milioni di iscritti a livello nazionale, nella stragrande maggioranza era proletariato: operai di tutte gli ambiti lavorativi, in specie di fabbrica ed edili, tecnici, contadini, artigiani…

Il pathos costituente nell’agire, determinato dal convincimento propositivo e dall’humus della solidarietà, era costantemente rivolto a migliorare le misere condizioni di vita che caratterizzavano le condizioni di vita della stragrandissima parte degli italiani, usciti da poco più di un decennio dalla Lotta di Liberazione, dalle tragedie della guerra, dal disfacimento ideologico e morale impresso dalla dittatura fascista.

Militanti “umili” (nella specificità verghiana della parola), profondamente umani, intrisi dei sentimenti civili e democratici impartiti dalla novella Costituzione, e dalla dinamica del Pci e delle sinistre tutte, politiche e sindacali.

Le grandi riforme strutturali civili e sociali (quelle di circa un quindicennio dopo) dovevano ancora venire. C’era, però, nei militanti uomini e donne, la grande speranza di determinare con il proprio fattivo contributo, da singolo nell’ambito della collettività, il cambiamento, a partire anche dalle proprie condizioni di vita, e di rimuovere quindi le “mummificazioni” e le diseguaglianze storiche che contrassegnavano l’Italia.

Bello e significativo, specie per i giovani. Un memorandum storico su come si era stati da parte di molti italiani. Le fattispecie non possono più ritornare, ma i riferimenti politici, culturali, gli insegnamenti e i valori umani certamente Sì!

Lo scritto del 2016 di db – cioè Daniele Barbieri – «Ciao Pelle, avevamo ragione noi» è coinvolgente, lungo, e articolato, una ricostruzione da parte di chi ha vissuto in prima persona, e conosciuto direttamente il compagno Pelle. Sui fatti ricostruiti necessariamente, in questa nota, può essere riportato solamente l’essenza del “cuore pulsante”.

In memoria di Massimo Avvisati, detto Pelle, militante del gruppo politico Lotta Continua a Roma. Un proletario, operaio alla Selenia, morto a 21 anni nell’ottobre 1976 a seguito di una gravissima e improvvisa malattia. Nel 1976, per le elezioni politiche di giugno, Lotta Continua propose a Pelle di candidarsi per le elezioni politiche, nella lista comune  denominata Democrazia Proletaria che oltre Lotta Continua aggregava Avanguardia Operaia e altre strutture politiche della nuova sinistra.

(anche lo scrivente si candidò nella Circoscrizione Sicilia Orientale per la lista richiamata).

L’esito elettorale non fu esaltante: Democrazia Proletaria ottenne 1,52% dei voti, e sei deputati. Il PCI ottenne il 34,37% dei voti, il Psi 9,64%, la DC – primo partito – il 38,71%. ll sistema elettorale si basava esclusivamente sulla proporzionalità. Gli “equilibrismi faccendieri” maggioritari, imposte con le “riforme”, sarebbero venuti dopo.

Lasciamo parlare Pelle, per come è stato riportato:

Mi pare ieri che ho iniziato a fare politica, mi fa un po’ ridere ‘sta parola. Non avevo ancora 11 anni quando ho iniziato a diffondere L’unità, al lotto 9 del Tiburtino terzo… abitavo lì, due stanze umide e senza riscaldamento. Tiburtino terzo, costruito da Mussolini… temporaneamente aveva detto… il più alto tasso di malattie reumatiche e cardiache di Roma” .

Questa la sua “presentazione” per le elezioni: 

“ Il primo sciopero lo organizzai a scuola per il riscaldamento. Mia madre era stata protagonista, con altre donne, delle proteste per la messa in sicurezza della scuola che è poi questa in via del Frantoio, insomma dall’altra parte della strada.

Mia madre – racconta Pelle – l’ho persa a 9 anni. Mio padre ha fatto mille sacrifici per farci studiare… Erano tutti e due comunisti.

A Tiburtino terzo c’era la Fgci più forte… la Fgci, se non lo sapete erano i giovani del Pci. Noi eravamo in lotta sempre. Alla fabbrica Sciolari facemmo sciopero persino per il diritto di portare i capelli lunghi, il padrone non voleva i capelloni.

Racconta Pelle che la Fgci lo vuole mandare alle famose Frattocchie, la scuola quadri del Pci. Lui allora si legge tutto “Stato e rivoluzione” di Lenin – “ero piccolo, non capii proprio tutto” scrive – mentre a mio fratello toccò studiarsi “la concezione materialistica della storia”.

Così alle Frattocchie feci questo corso, scrive Pelle: venne Napolitano, mi pare. Ma si litigò. Noi volevamo fare la rivoluzione… Così ci sbatterono fuori dalla Fgci.

Non ci spaventammo per quello. Ci organizzammo con i Tiburtaros, che era la traduzione romanesca dei Tupamaros, un gruppo rivoluzionario in Uruguay. Noi del Tiburtino eravamo dappertutto: occupazioni di case, scioperi, servizio d’ordine, controinformazione, quasi un piccolo partito. Non accadeva solo a noi, esperienze simili c’erano anche negli altri quartieri proletari di Roma. Era un vento nuovo, forte.

Il tempo passa…. Entro alla Selenia con il collocamento perché sono figlio di un invalido, mio fratello finisce all’Eni, Mollettone è operaio alla Fatme, Stiracchio va alla Pirelli di Tivoli, Giampiero fa l’autista all’Atsac, Carmelo è operaio della Roma Supermarket. Si rompevano gli steccati perché prima in quei posti si entrava con la raccomandazione.

Operai e proletari.Come milioni in quella fase storica in Italia. Anni duri di continue rivendicazioni, di lotte, di partecipazione, con intensi dibattiti, con continui cortei. Grandi le manifestazioni studentesche e sindacali, per i rinnovi contrattuali, per il cambiamento dei servizi sociali come delle scuole/università. Per l’acquisizione di nuovi diritti (di cittadinanza), per ridimensionare le grandi diseguaglianze. In vera solidarietà, sempre a fianco dei “cento” riferimenti sociali e cittadini che chiedevano sostegno attivo.

I grandi movimenti femminili e femministi: per i diritti delle donne e contro le discriminazioni imperanti, per un cambiamento fondamentale nei rapporti uomo-donna. E poi, in maniera prioritaria, per la pace contro tutte le guerre: era ancora in corso l’enorme massacro in Vietnam. «Le guerre sono sempre state decise dai ricchi e dai potenti che hanno mandato a morire i figli dei poveri» (Gino Strada).

In quella fase continuò la democratizzazione e la profonda trasformazione del tessuto sociale italiano, che riguardò tutti gli ambiti nelle varie articolazioni, ci furono (cosa oggi dimenticata) anche i proletari in divisa, un grande movimento di lotta: l’apice fu nel 1976. per democratizzare l’essenza delle forze armate nel nostro Paese.

Nel 1981, presidente della Repubblica Sandro Pertini, anche la Polizia mutò strutturalmente: doveva essere (e dovrebbe essere) non corpo militare, ma struttura civile e sindacalizzata.

Non avveniva solo a Roma, come richiamato nei due esempi richiamati, ma ovunque dal nord al sud.

Seguitava a spirare il vento del cambiamento. Forte, travolgente.

Altri tempi. Oggi le differenza,le passività, si toccano proprio con le mani. Ma il proletariato non è scomparso.Diviso in rivoli, aspetta … in attesa di nuove capacità aggregative plurali con obiettivi rivendicativi comuni.

Per rilanciare il necessario, anzi urgente, «proletari di tutto il mondo unitevi».

* da La Bottega del Barbieri

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1 Commento


  • Andrea Vannini

    Bene, ma non é proprio possibile citare Il sole dell’ avvenire di nanni meretti così asetticamente e ambiguamente. é opera anticomunista di un anticomunista. sbagliato condannare l’ intervento in ungheria nel 1956? meglio sarebbe stato se non fosse stato necessario. si trattava comunque di controrivoluzione e sacrosanto é stato stroncarla. se il pci sbaglio’ non fu giudicando positivamente quell’ intervento ma condannando gli interventi in cecoslovacchia, afganistan e solo politicamente in polonia. tentativi sempre e comunque controrivoluzionari ispirati dall’ imperialismo. certo questo mio giudizio andrebbe maggiormente articolato ma la sostanza é questa. poi, il senno del poi, dovrebbe aiutare assai.

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