Il tentativo di imporre a Zaky il volo di Stato si è rivelato un gesto istituzionale davvero sgangherato, un boomerang dell’immagine desiderata da un governo ansioso di riconoscimenti.
Se si fosse voluto fare politica internazionale, invece che mera propaganda, si sarebbe offerto, senza clamori, un volo dei nostri servizi. Invece si è voluto fare la smargiassata, a favore delle telecamere.
Era talmente tutto pronto, che quando Zaky ha detto “no, grazie” sono partiti gli strali, una serie organizzata, preordinata e dotata di una volgarità politica direttamente proporzionale alla rabbia per la messa in scena abortita.
Il vuoto di decenza istituzionale si è subito riempito degli strepitii dei nuovi gerarchi, che hanno dato vita allo spettacolo di arte varia del travaso di bile: dal “lo avrei lasciato marcire in Egitto” dell’ineffabile Vittorio Feltri – che oltre a far disonore al giornalismo, provoca la sospensione del rispetto per un anziano, ormai vittima del logorio dei freni inibitori – al “ci ha fatto risparmiare” del ministro Crosetto, che con l’agilità del pachiderma in una cristalleria, travestendosi da responsabile degli Esteri, parla di soldi invece che di buone pratiche istituzionali, dimostrando ancora una volta che è stato nominato ministro della Difesa un semplice mercante d’armi.
Quando ancora era in carcere, grazie alla mobilitazione promossa dall’Alma Mater di Bologna, Zaky ha ottenuto la cittadinanza italiana, cosa che nel nostro paese non è riconosciuta neppure ai figli dei cittadini stranieri che nascono in Italia.
In queste ore la cittadinanza è stata fatta passare come una “grazia ricevuta” immeritata. Come se non sapessimo che il partito dell’attuale capo del governo, che oggi strombazza disappunto, neppure votò in Parlamento la proposta di concessione della cittadinanza a Zaky.
Se la politica fosse una disputa sul piano della riconoscenza, alla fine ciascuno avrebbe quello che andava cercando. Ma questo è solo lo specchio d’acqua del piccolo cabotaggio in cui s’affanna la ciurma di Mario Sechi, il nocchiere della propaganda di Palazzo Chigi.
Tanto che Meloni arriva a mettere la ciliegina su questa torta di panna inacidita dai rancori: “non ci aspettiamo riconoscenza”, fa saettare dalla sua lingua dall’accento di borgata.
Sia detto col rispetto della gente di borgata, ma per polemica con Paolo Mieli, che invece di preoccuparsi dell’italiano di Zaky, se proprio dovesse, farebbe meglio a redarguire quello di Meloni.
Il fatto è che Meloni conferma la cocente delusione per lo spettacolo annullato, allo stesso tempo confessa ingenuamente la vera ragione politica della questione: “ti ho fatto uscire io, tu dovevi fare quello che ti dicevo io”. Questa però è una balla che può raccontare ai suoi.
Dal punto di vista sostanziale, la battaglia per la liberazione di Zaky è partita dall’Università di Bologna, per poi coinvolgere la città e da lì dilagare in Italia e in Europa. Dal punto di vista formale, la liberazione è avvenuta – dopo una incredibile condanna per reati d’opinione – per grazia presidenziale. Bisognava stare al gioco.
Attribuirsi il merito significa non tener contro delle circostanze e rischiare l’incidente, anche nei confronti della nostra stessa rappresentanza diplomatica, – i cui sforzi sono partiti ben prima dell’attuale governo -, perché svela, anche di fronte agli egiziani, in barba alle dure leggi instaurate in quel paese dalla dittatura, l’esistenza di una trattativa segreta tra i due governi, la cui contropartita potrebbero essere altri finanziamenti europei anti-immigrazione.
Anche su questo versante alla cautela e alla riservatezza tipiche dei rapporti diplomatici, si è sostituita la regola del protagonismo di “una sola donna al comando”.
Qui finalmente arriviamo alla “ducezza”, la cifra stilistica della propaganda di questa simulazione di nuovo regime che la destra cerca in ogni occasione di allestire, spesso con risultati grotteschi.
Mascherare i rachitici risultati di governo, il disastro nella gestione del PNRR e le colossali inadempienze del programma elettorale con roboanti messe in scena propagandistiche, è roba da cinegiornali Luce, di “quando c’era lui, caro lei”.
Nei fatti, la strategia della comunicazione della “ducezza” è incentrata sul leitmotiv “adesso che c’è lei”, che però suona un po’ meno convincente di quel “meno male che Silvio c’è” che ha fatto da colonna sonora all’ascesa di Meloni.
Ci sarebbe anche da dire che non passa giorno che questa impostazione, più che un piano accuratamente preordinato, sembra un piano inclinato in cui scivolano giù, senza appiglio, gaffes, incompetenze, strafalcioni, smentite e stizzosi improperi.
Comunque, mentre gli araldi della destra continuano a battere con ostinazione il tamburo della propaganda filogovernativa a favore della “ducezza” di Meloni, dovremmo invece rivolgere la nostra attenzione al silenzio della famiglia Regeni, un silenzio pesante come un macigno per la coscienza democratica di tutti noi, che abbiamo dovuto assistere, senza neanche reagire, addirittura alla rimozione degli striscioni “Verità per Gulio Regeni” da parte delle giunte di destra, a cominciare da quella guidata da Di Piazza, sindaco di Trieste, città nella cui provincia nacque Giulio.
Che la bora se lo porti.
Ecco, allora, che la vicenda di Zaki ci dovrebbe imporre di non rimuovere dalle nostre priorità la forza di pretendere verità e giustizia per Giulio Regeni: perché non si può lasciare impunito un crimine politico di quella ferocia, nessuna “ragion di Stato” avrebbe la credibilità di accettare un tale sopruso, sarebbe un’ingiustizia intollerabile.
È tempo di tornare a dirlo ad alta voce: tutti sarebbero stati fieri di avere avuto un figlio come Giulio. Tutti vogliamo giustizia.
Come si può accettare la presenza nelle riunioni internazionali di chi si rifiuta di consegnare gli aguzzini alla giustizia e stringere al Capo di quello stato la mano sporca del sangue di uno dei nostri migliori ragazzi?
O è andata a finire che la contropartita è stata “pigliatevi Zaky” in cambio dell’oblio su Regeni? La repentina smentita del nostro ministro degli Esteri sembra una malcelata conferma.
Ora che Zaky sta tornando in volo alla volta di Bologna [l’articolo è stato scritto prima della partenza, ndr] – all’imbarco ha ringraziato le autorità italiane, e ha fatto i nomi dei diplomatici della nostra ambasciata al Cairo per l’impegno profuso a suo supporto -, lo accoglieranno gli amici, i professori e i compagni che per primi denunciarono il suo sequestro all’aeroporto del Cairo.
Sono loro che giustamente lo festeggeranno, e potranno essere orgogliosi degli sforzi profusi perché la sua vicenda non finisse nel buco nero in cui sono finiti 2.300 cittadini egiziani, perseguitati dal regime militare della giunta Al Sisi.
È come se volessimo essere tutti a Bologna con loro, perché la riconquista della libertà di un giovane uomo fa bene alla salute democratica del nostro paese e l’idea stessa di liberazione sa contagiare tutti coloro a cui la libertà sta a cuore.
Bentornato, Patrik. Ci sono donne e uomini del nostro governo che dovrebbero imparare da lui che cosa sia e come si pratichi il senso della misura. Fatto sta che la sobrietà, la compostezza, il senso della realtà dimostrati fin ora da Patrick Zaki fanno di lui un nostro nuovo buon concittadino.
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Pasquale
Governo di stupidi fascisti.
Pasquale
Zacki è libero. Per espiazione della pena, per grazia ricevuta non cambia nulla. È stato liberato da quelle catene che lo tenevano fermo e immobile nella gabbia della ipocrisia e malvagità umana. Zacki ha dato una lezione di moralità a quel mondo fatto di ipocrisia e corruzione che popola la politica e il potere in genere. Ha ringraziato correttamente,senza prestarsi a facili strumentalismi tutte le istituzioni che hanno lavorato per la sua liberazione. Ma soprattutto ha ringraziato quel mondo fatto di gente che gli vuole bene e che è riuscito a creargli sempre gli stimoli giusti facendogli sentire sempre la propria vicinanza. Ora, siamo convinti che sarà una voce importante in più sulla strada della salvaguardia dei diritti umani. Un lottatore fondamentale per la verità sulla morte di Regeni e anche per la libertà di Assange. Gente della gente che come tanti altri sono stati rinchiusi in carcere per aver osato difendere i diritti umani di tutti anche all’informazione e all’autodeterminazione.
Andrea Vannini
Libertà per Assange. Verità e giustizia per Andrea ROCCHELLI.