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“Vire Omar quant’è bello!”: gli ergastoli delle lontananze e la Palestina vista da Piazza Garibaldi

Da dove viene tuo nonno?” domando ad un bambino alla Stazione di Napoli, mentre aspetto Omar. “Dalla Moldavia, oppure, dalla Moldova, ma quando è nato non ci stavano: era russo o qualcosa del genere. Non mi ricordo cosa era. Io sono Ucraino, nato dove è nata la mia mamma, che però è russa e parla russo, mentre io parlo solo ucraino e mio padre è due o tre cose. A Napoli tutti pensano che siamo polacchi.

Una volta ho conosciuto una signora un  po’ russa, un po’ ucraina, molto rumena e tanto moldava, ma per noi napoletani anche lei era ‘polacca’: storie di transiti, di follie burocratiche retroattive, che cancellano anche le identità passate. Una sospensione in cui non solo non si sa dove andare, ma neanche da dove si è venuti.

Confini che si scrivono e riscrivono, che si aggiungono o sottraggono alle nostre spalle, seguendo capricci di cocainomani e di mercanti delle armi. Aggiungendo ai transiti geografici dei migranti confusioni identitarie continue. Di dove sei? Dov’è la tua casa? Capita, appartenendo a tribù improvvisamente nemiche e prima amiche, che il cugino amato nella propria infanzia possa diventare il tuo potenziale assassino.

Il gioco delle tre carte, anche per disegnare il fato altrui, per cui le migrazioni dell’est sono ‘polacche’, mentre tutte le altre nazionalità ‘neri’. Omar ha la stessa carnagione mia e i miei stessi anni. Non è nero, quindi, ma neanche polacco: perfettamente integrato nei riti stanchi della nostra borghesia.

Forse per questo il suo transito sulla terra è avvolto nel mistero, perché pur essendo ‘dei nostri’, per educazione, stile e sentire, è proveniente dall’universo arabo. Palestinese, anche se della sua terra praticamente non ricorda più nulla. Scappato in Giordania appena nato non è mai più tornato a casa.

Campi profughi aggrappati a confini instabili, alternati a guerra, a nuove fughe, nuovi confini, fino all’arrivo a Napoli, dove si è sedimentato come un fiore cresciuto nella crepa di un muro: senza radici e senza terra. Del resto Paolo, un mio amico insegnante da sempre vicino alla causa Palestinese, non sapeva di averne una alunna in classe. Pensava fosse araba o cose così.

Ma non è superficialità: il fondersi con nuove realtà, soprattutto nel superamento di un trauma, può innescare negazioni addirittura all’interno del proprio nucleo familiare. Così i genitori di questa alunna, forse proprio per proteggerla, gli hanno dato un’educazione tutta occidentale, nella quale la parte Palestinese è sullo sfondo. Un quadro appeso nel salotto di casa.

Il dolore va sempre bilanciato e, a volte, non rimane altro che innescare meccanismi di rimozione totale. Un po’ perché non sempre si hanno le risorse per bilanciare la sofferenza, per reggerla nella pratica quotidiane senza venirne sopraffatti. Che sia una sicurezza, un sogno, oppure un amore, ogni scuorno si supera quando non è totalizzante, altrimenti prima o poi ti ammazza.

Ma finisce che se lo si nasconde può esplodere: la vita dei naufraghi in terra è piena di buchi neri e qualcuno ci precipita dentro. Un ergastolo che si basa su catene invisibili oltre la stessa povertà, oltre lo stesso dolore, dove il trauma diventa pane quotidiano e non evento del passato. Si fa avanti e indietro nella propria paura, senza trovare una via di uscita.

Omar ha perso tutti i parenti, tutti i contatti con il suo sangue: è come se il suo essere Palestinese fosse un qualcosa di astratto, fatto di una attenta militanza politica, ma non di quel senso di appartenenza dato da legami solidi. È l’idea di casa, di una idea precisa di casa, che manca. Non manca solo come potenzialità concreta, a volte manca come odore, come suono, come ricordo.

Vite monche, come se Omar nel suo viaggio non avesse valigie, ma solo bagaglio a mano. Il campo, l’eterno campeggio al quale costringiamo miliardi di Uomini, si trasforma in ossessiva precarietà, dove anche il destino diventa talmente minimo che può essere infilato in un borsello.

Siamo a Piazza Garibaldi-Napoli: l’antro di una navicella spaziale in disuso, dove i transiti e le stanzialità si sovrappongono in una danza macabra: chi parte, chi resta, chi aspetta e chi, invece, fugge da sé stesso o dalla guerra. Una fuga che può assumere la fisionomia di una paralisi, di un cartone sporco di piscio sul ciglio della strada. Guerra che marchia a fuoco e che può far saltare le cervella.

Un’umanità aliena, scaraventata su questa piazza che, non sapendo dove andare o come tornare indietro, si rassegna all’eterno via vai dei treni che volano via. Omar è sempre sorridente, un sorriso sobrio che non ha però mai il tono della risata. Ma, a differenza di tanti cordiali nostri incontri, in questo caso ci sta un alone di sospetto: forse è la idea mia di intervistarlo che, improvvisamente, ci mette su due fronti opposti.

Così camminiamo in silenzio, aspettando la mossa dell’altro, rapiti dal falso movimento della stazione. Io sono invaso da una pigrizia mentale, come se più che intervistarlo, vorrei che impersonasse il cliché del profugo snob che ho deciso di affibbiargli.  Così guardiamo la stazione ed evitiamo confronti.

Alexis invece è peruviano: cerca di convincere i passanti che solo il suo dio salva. Ha una camicia arancione, mentre la moglie, con vestitino a fiori bianchi e verdi, gli fa da contraltare. Un’ immagine di armonia sintetica, che però fa a pugni con la disperazione che ci circonda, quasi che la pratica del fanatismo fosse unica via di pulizia alla stazione.

Il peccato e la redenzione a Piazza Garibaldi sono divisi da confini labilissimi, si confondono facilmente in transiti di dannazione o santità troppo simili per appartenere a categorie umane diverse. Un tutt’uno dove, guardando con attenzione la coppietta di convertitori compulsivi, mi è facile intravedere il loro passato di violenza e miseria. Forse, ma questa è opinione personale, è lo stesso assolutismo insito in ogni fanatismo che salva da un degrado che appare irrimediabile.

Le moschee e le chiesette di ogni culto nei luoghi dei nostri abbandoni rappresentano, a modo loro, un baluardo alla alienazione. La comunità piccola nella quale impostare la salvezza nei rapporti umani, oltre che cercare ipotetiche salvezze celesti. La stazione di Napoli, in questo senso, è la San Pietro del nuovo medioevo.

Omar non ha retrogusti religiosi, immune all’Islam come parte di quella generazione palestinese laica e comunista spazzata via: schiacciata dallo stesso estremismo contrapposto di ebrei e palestinesi. Quel ‘con me o contro di me’, che rende tutti più bidimensionali e deficienti. Ma è proprio questa l’arma micidiale del turbocapitalismo: renderci distratti o rincoglioniti.

Omar è parte della componente del dialogo dei Palestinesi che qualche millennio fa aveva forza e prestigio politico internazionale. Così Omar, in un certo senso, è anche migrante rispetto alla sua stessa migrazione. Un profugo al cubo: profugo tra profughi, profugo tra noi e profugo con una parte di sé stesso.

Il disequilibrio, qualunque natura abbia, crea verticalità irrimediabili. Certo è che se Israele veniva fondata in Calabria non si sarebbero create le condizioni per una guerra permanente.  Ma a dirlo adesso sembra demagogia: tutto sommato è il nazi-fascismo, però, che ha tentato di annientarli.”

“Al tempo stesso mortificare e spezzare ogni potenzialità al Popolo Palestinese produce una disperazione afona. Un buio nella mente che, generazione dopo generazione, peggiora e crea le premesse al fanatismo di diventare unica via di redenzione, ma anche di militanza. Lo squilibrio aumenta e, proporzionalmente, anche il reciproco odio.”

“È vero che a rappresentare questo pensiero siamo rimasti in pochi e che, comprese le manifestazioni a sostegno della causa Palestinese, vedono pochissimi italiani della nostra generazione e tantissimi giovani.  Però è anche vero che il sostegno del ragazzo occidentale è complesso, perché mischia il suo anelito alla Giustizia e alla Libertà, con fenomeni dove queste componenti potrebbero non essere così centrali.

Si sentono urla e lamenti che solidificano la paura: sono i tanti clochard che con il caldo fermentano di più i loro deliri. L’odore è quello della monezza, misto ad urina. Come essere anche noi al fronte di una guerra mondiale talmente diffusa da non risparmiare nessuno di noi. La esclusione è la malattia che corrompe l’anima, creando zone di Quarto Mondo anche nei nostri distretti commerciali. Uno stato d’allerta permanente e contagioso.

I bambini palestinesi, oramai, vivono in una condizione di ansia tale che il loro sviluppo è compromesso. La mia infanzia, per quanto durissima, aveva la speranza di un ritorno e la potenzialità di una educazione. Oggi vediamo la mattanza in atto, la brutalità delle bombe, ma non riusciamo a percepire che la morte si aggiunge ad un accerchiamento già totale.

Un Popolo perduto, dove quelle macerie inficeranno e per sempre la vita dei sopravvissuti. Naufraghi in terra, costretti ad una invalidità fisica o psichiatrica, alla carenza di formazione oltre che di speranza. Alle tortuosità delle perenni fughe migratorie, con il loro carico di neo schiavismo o alla mattanza di un insostenibile apartheid in patria, nel fazzoletto sempre più piccolo di terra che ci concede Israele. Ad essere carne di macello di ogni fanatismo, non perché non si ha niente da perdere, ma in quanto non si sa di avere già perso tutto.

Lo sterminio di massa avverrà lentamente e, messo in moto, non si potrà più arrestare anche perché eserciterà la sua forza devastante con modi e tempistiche ogni volta diverse. Quando infili una gallina viva in una gabbia di leoni affamati non puoi pensare che sopravviva.

Ho capito che Omar non ha nessuna voglia di parlare di sé.  Delle conseguenze personalissime e intime che la sua esistenza gli ha causato. Cala più i panni dell’opinionista, raccontandomi cose che molti di noi già pensano e altri non hanno più voglia di pensare. Così mi limito a camminare al suo fianco, percependo però l’oceano di vuoto che si porta a spasso. Un mare oscuro che, forse, non ha voglia di condividere. Vago con gli occhi tra le macerie della nostra stazione, tentando di riportare la discussione sul qui e ora.

Droga, alcol, prostituzione, delinquenza, marginalità, degrado sembra che in pochi kilometri quadrati ci siano tutti i mali del mondo occidentale, quasi una sintesi a cielo aperto del tramonto ignobile del nostro capitalismo.

Le aspettative. Partire per qualcosa che aspetta. Poi però questo qualcosa non arriva e i più fragili si perdono. Rimangono in mezzo. Le guerre non solo quelle delle bombe, perché una certa povertà, quando è nera e assoluta, è di per sé una guerra. Molti non sanno reggere alla vergogna, altri al dolore e il risultato è questo: annebbiarsi, devastarsi, auto distruggersi. La stazione di ogni città è come un cimitero di sconfitti, ma quella di Napoli è la morte della ragione e della pietà.

I transiti senza meta dei nostri abbandoni, che siano i migranti o le tante sofferenze delle nuove povertà, trovano campo di atterraggio, forse di consolazione, in determinati luoghi: dove camuffarsi, cancellando specchi e legami. Dove raccattare la monetina. Dove, nel lento scendere gli inferni della malattia e della fame, ci sta ancora qualcosa a cui aggrapparsi, se non altro all’anima persa che ti passa accanto, che parla la tua lingua o il tuo silenzio.

La mensa, il volontario che ti porta il panino. Sperare finalmente in un giorno buono, poi però non arriva mai e ogni mattino si è un po’ di più irrimediabilmente perduti.  Si peggiora, quasi senza accorgersene. Noi due al bar, con un caffè davanti, cercando di tracciare un filo tra l’amico Omar e il profugo Omar. Su come il destino di chi è stato profugo, trasformi la sua esistenza in un transito senza meta: l’ergastolo dell’assenza.  Ma è come se tra i due Omar non ci fosse una comunicazione possibile.

Torna a Surriento”, nella meravigliosa versione in inglese cantata da Elvis Presley, è tradotto nel titolo in “Surrender”, resa, arrendersi: la capacità di non voltarsi indietro mentre tutto brucia. Il rimpianto che trasforma in statua di sale.  La canzone simbolo della nostalgia del transito, diventa una resa incondizionata alla malinconia e, contemporaneamente, un anelito alla stessa sopravvivenza.

Misteri della poesia, della assoluta incapacità di determinare gli eventi anche delle piccole cose: gli autori della canzone l’avevano scritta come preghiera a qualche burocrate grigio per farlo intervenire su carenze del territorio. Fogne o, comunque, bisogni primari. Eppure ci mostra un lato oscuro insito in ogni spleen: la dolcezza, senza la quale, anche un microscopico mal di testa ci ammazzerebbe.

L’anelito al ritorno, alla congiunzione tra sogno e bisogno, con il mare che custodisce tesori: le anime perse dei naufragi, vero, ma anche il canto delle sirene.  Tornare a Sorrento, una terra scomparsa e violata, impressa a fuoco nell’ Io di ciascuno di noi: in quel fammi vivere, “famme campà”.

I migranti rappresentano con la loro umanità una speranza. Perché di fianco, di lato, di nascosto dai nostri occhi tristi a guardare le rovine della corruzione, creano luce: mettendo accanto alla miseria, anche qualche potenzialità di riscatto o, almeno, di allegria. Come un bilanciamento estetico misterioso, quello per cui il peccato e la redenzione diventano la stessa cosa. Quello in cui il sorriso distratto di una passante ti rende la giornata migliore.

Dal ristorante etnico alla moschea, dal garage trasformato in chiesetta evangelica alle giostrine riempite di bambini di ogni colore, si mette in moto una macchina di resistenza vivace, oltre che di grigia sopravvivenza. È il dio delle piccole cose, quello che fa pregare ai pescatori durante la tempesta. Quello che rende la mia intervista completamente vera, anche se è totalmente inventata.

La tecnologia ha modificato le comunicazioni dei migranti. Decenni di lontananza si cancellano con una video chiamata. Nonni che guardano nipoti mai conosciuti. Mogli che si fanno un filo di trucco per parlare con mariti di cui non ricordano l’ardore. Le mamme africane tutte colorate che rispondono da qualche villaggio remoto ai figli super napoletanizzati della nostra stazione.

Così lo stesso genocidio dei palestinesi gira più su wapp che nelle nostre televisioni o sui giornali. Vedi corpi di bambini smembrati, chiazze di sangue, urla di dolore: macerie ovunque che lasciano un senso di impotenza, come se l’ultimo gradino verso la morte della nostra coscienza sia già stato compiuto. Tutto è andato perduto, anche il nostro intelletto. Ma poi ad interrompere la danza cupa del mio pensiero arriva una refola di vento fresco.  Un infinito muto che traspare dietro la cappa di caldo e puzza, ma che rende ogni vita un transito dolce, anche nel buio della nostra Stazione.

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