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Giorgia Meloni sta “facendo la Storia” dell’incompetenza in Economia

Prendiamo sul serio la recente dichiarazione di Giorgia Meloni secondo la quale il Governo da lei presieduto “sta facendo la Storia” e proviamo a verificare se, sul piano della politica economica (ovvero, una parte importante, se non la più importante dell’azione complessiva di un esecutivo), sono stati introdotti elementi di significativa discontinuità e, se sì, con quali risultati.

Questa valutazione è importante anche perché può costituire la base per un bilancio del biennio trascorso da Meloni a Palazzo Chigi.

La legge di bilancio in discussione in questi giorni reitera un mix di misure già sperimentate sia dal centro-sinistra, sia dal centro-destra, a partire dai primi anni Novanta.

Fu, quella, una fase nella quale si decise di accelerare la transizione dal modello di economia mista prevalente negli anni Sessanta-Settanta (con rilevante intervento dello Stato, sia per la fornitura di servizi di welfare, sia come produttore di beni attraverso le imprese pubbliche) al modello di economia di mercato deregolamentata.

Tutti i principali provvedimenti annunciati o già realizzati da questo Governo (dalle agevolazioni fiscali alle imprese, alla reintroduzione dei voucher, al taglio dei finanziamenti alle Università, alle privatizzazioni, alla spending review) sono già stati sperimentati e costantemente ripetuti proprio a partire dalla svolta dei primi anni Novanta.

È interessante poi osservare che i due principali “cavalli di battaglia” di Giorgia Meloni – il rinnovo annuale una tantum del taglio del cuneo fiscale e la Legge sull’autonomia differenziata – non solo non rappresentano nulla di nuovo nella nostra Storia recente, ma sono sempre stati i punti di forza di Governi di centro-sinistra.

Per quanto riguarda il primo provvedimento, occorre ricordare che è stato inaugurato dal primo Governo Prodi nella Legge Finanziaria 2007, seguito, sulla medesima linea, dal Governo Renzi e successivamente dal Governo Draghi (con Fratelli d’Italia all’opposizione).

La Legge Calderoli sull’autonomia differenziata, motivo di vanto per Meloni e i suoi ministri, non si configura come provvedimento di politica economica, trattandosi di una Legge che si limita, al momento, a stabilire le procedure da seguire per il decentramento dei poteri alle Regioni che ne faranno richiesta.

Ciò almeno fino a quando non saranno individuate le risorse per finanziare i LEP. Anche in questo caso, non ci si trova di fronte a una discontinuità: la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 da parte del Governo D’Alema, ha introdotto, per la prima volta, l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa per le regioni e le autonomie locali, creando le condizioni per il decentramento amministrativo.

Il Governo Meloni, dunque, fin qui, non ha fatto nulla di nuovo.

Ma vi è di più. Ha seguito, senza alcuna originalità, un indirizzo di politica economica che si è rivelato via via sempre più dannoso per l’economia italiana.

Ciò vale sia nel breve sia nel lungo periodo.

a) Nel primo caso, può essere sufficiente rilevare che il tasso di crescita – che si può usare come misura del successo dell’azione di governo – è passato dal 4% del 2022 allo 0.7% del 2023 e dello 0.3% nel primo semestre del 2024, secondo le ultime rilevazioni ISTAT (ottobre 2024).

Su fonte OCSE, il tasso di crescita dei Paesi industrializzati è, quest’anno, nell’ordine del 3.2%. Facciamo, dunque, peggio degli altri e peggio di prima.

Ciò nonostante un contesto macroeconomico sostanzialmente favorevole, per il calo del tasso di inflazione, dei tassi di interesse BCE e per l’ampio spazio fiscale derivante dal PNRR: un contesto che non è stato determinato dalle politiche attuate da questo Governo.

b) Per quanto attiene agli andamenti di lungo periodo, occorre considerare che l’economia italiana sperimenta una continua riduzione del tasso di crescita del Pil (e della produttività del lavoro) da oltre trent’anni.

L’evidenza empirica mostra che, soprattutto nel caso italiano, il declino coincide e accelera con l’aumento del grado di libertà economica.

La libertà economica viene, di norma, misurata con l’indice di Fraser e include numerose variabili, fra le quali la facilità di assunzione e licenziamento e l’entità dell’intervento pubblico in economia.

Una ampia ricerca della Banca d’Italia documenta questa relazione (si veda Gianni Toniolo, a cura di, L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, Collana storica della Banca d’Italia, 2013).

Dividendo in due sotto-periodi la nostra storia economica recente, si può riscontrare che negli anni successivi alla svolta liberista del 1992 – svolta che Meloni riproduce – il tasso di crescita del Pil in Italia ha registrato un aumento medio annuo dello 0.9% e la nostra economia ha sperimentato ben quattro recessioni.

Per contro, dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, in una stagione caratterizzata da maggiore intervento pubblico in economia, l’Italia ha fatto registrare aumenti del Pil reale mediamente superiori al 4%.

Fra il 1951 e il 1963 il prodotto interno lordo è cresciuto in media del 5,9% annuo, con un picco dell’8,3% nel 1961. In più, dal secondo dopoguerra al 1992 abbiamo sperimentato una sola recessione – quella provocata dalla crisi petrolifera del 1973 – e la massima convergenza del Pil pro capite fra Mezzogiorno e Nord del Paese (68% nel 1975, a fronte del 55% attuale).

La vera novità è semmai l’improvvisazione che spinge da due anni il Governo a provare, senza esito, a tassare gli extra-profitti bancari, per arrivare alla surreale proposta dei giorni scorsi (del viceministro all’Economia Federico Freni) di accordarsi con il settore bancario italiano per una “collaborazione concordata” con le banche in merito alla quantificazione delle tasse sui loro profitti.

Va ricordato, ove mai ve ne fosse bisogno, che la tassazione è da sempre e per definizione, un prelievo coattivo, che serve per finanziare le spese dello Stato.

È probabile, quindi, prendendo sul serio Giorgia Meloni, che il suo governo passerà alla Storia o per aver ripetuto misure già note o per aver introdotto nella politica economica nazionale una dose addizionale di incompetenza.

L’ossimoro della “tassazione su base volontaria” – con l’aggravante che la possibilità di non pagarle è un privilegio esclusivo delle banche – sta lì a dimostrarlo.

* da Il Corriere del Mezzogiorno

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2 Commenti


  • Sergio

    Come si può pretendere da una che di economia e altro non sa nulla.da una che fino all altro ieri stava nelle borgate.da una che non sa neppure parlare bene l italiano da una che ha a cuore solamente la propria immagine ….Come si può pretendere?
    L incompetenza altrui permette sempre la critica ma non il cambiamento in assenza di qualcuno che sappia fare meglio.


  • Arsenio Stabile

    Esatto Sergio, e non parliamo poi di numeri

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