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Maranza di tutto il mondo unitevi. Intersezionalità e materialismo

Il rinnovarsi della questione palestinese a partire dal 7 ottobre 2023 ha portato a una diffusa mobilitazione di quella parte di proletariato e sottoproletariato migrante urbano europeo, spesso difficilmente mobilizzabile anche da parte della sinistra radicale che ha più attivamente cercato di intessere un rapporto quanto più paritario e non sovra-determinante.

È quella parte di proletariato appartenente soprattutto al contesto francese uno dei due grandi protagonisti di Maranza di tutto il mondo, unitevi! nella narrazione di Bouteldja, al fianco dei “piccoli bianchi”, ovvero il proletariato e i ceti medi bianchi declassati. Il libro di Bouteldja si interroga rispetto alla possibilità – da lei riconosciuta come molto improbabile – di costruire un’alleanza o, meglio, un gramsciano “blocco storico” tra classi subalterne bianche e nere riconoscendo al contempo la piena alterità del soggetto colonizzato.

Il progetto è ambizioso, e il libro affronta una serie di contraddizioni spesso soggiaciute dagli stessi militanti della sinistra radicale. Voglio però evidenziare una serie di contraddizioni in cui a mio avviso incorre l’autrice, che hanno a che vedere soprattutto con il paradigma intersezionale-postcoloniale da lei utilizzato. L’autrice, infatti, delineando i differenti vettori di oppressione (incluso quello di classe), parte dall’affermare di non preferirne nessuno:

Così, nelle pagine che seguono, non troveremo nessuna traccia del primato della razza sulla classe (o sul genere). Potremo anche sostenere, senza ambiguità, che la razza è una modalità della classe (e del genere), come potremo anche dire che la classe è una modalità della razza (e del genere). Ne consegue che la lotta tra le razze è una modalità della lotta di classe. Allo stesso modo, la lotta di classe è una modalità della lotta tra le razze. Tutto dipende dal momento, dallo spazio e dagli interessi congiunturali. È dunque davvero così importante fare piazza pulita della falsa contraddizione secondo cui una modalità di dominio avrebbe il primato sulle altre?” (Bouteldja, p. 37).

Provo a considerare da una diversa prospettiva quanto detto da Bouteldja. La razza può essere vista come una modalità, un modo di apparire della classe, così come la classe può essere vista come una modalità, un modo di apparire della razza (o del genere), con le conseguenze che anche le contraddizioni sono potenzialmente modalità di qualcos’altro. Bene, che cos’è questo “altro”?

Verrebbe da dire, siccome siamo all’interno del paradigma intersezionale, che “l’altro” di cui classe, razza e genere sono modalità di un rapporto di oppressione generalizzato. In alternativa, resteremmo a vagare su questi diversi vettori di oppressioni, uno espressione dell’altro, senza un centro di gravità vero e proprio o, meglio, i cui centri di gravità dipendono “dal momento, dallo spazio e dagli interessi congiunturali”.

In sintesi, per dirla à la Machiavelli, dalla fortuna della storia: certo, un paradigma interessante, ma stiamo tornando al Cinquecento. Questa filosofia di “indeterminazione materiale” dei vettori di oppressione è stata già criticata da Josefina Martinez, con particolare riguardo al lavoro di Ashley J. Bohrer, Marxism and Intersectionality (2019)1.

Ritengo però che Bouteldja preferisca evidentemente trovare un motore capace di produrre determinazioni storiche – almeno per quanto concerne la modernità -, per quanto influenzate dal “mare di contingenze”: per farla breve, preferisce il rapporto di razza nello studio dei rapporti causali rispetto a quello di classe o genere. Il seguente passaggio è paradigmatico:

Insomma, la storia della modernità è una storia della lotta di classe e questa ne costituisce il motore. Bene! È una verità indiscutibile, ma sarebbe più corretto ammettere che la lotta di classe, così come si è materializzata concretamente, ha assunto la forma di un conflitto tra sfruttatori bianchi e sfruttati bianchi, subordinato a un sistema mondiale di dominazione razziale. Il conflitto di classe prende corpo soltanto nell’articolarsi della colonialità del potere a livello mondiale” (Bouteldja, p. 89).

Difficile credere in questo passaggio a una vera equipollenza tra razza e classe (o genere) nell’interpretazione dei nessi deterministici fondamentali da parte dell’autrice. E, bisogna dire, l’autrice conta su una tradizione filosofico-politica di tutto rispetto, a partire dalla sintesi offerta da libri come Black Marxism di Cedric Robinson.

Credo però che la scelta implicita di privilegiare un vettore di oppressione sugli altri risponda a una tendenza che si sta affermando all’interno della sinistra radicale che afferma di riconoscersi nel paradigma intersezionale, ma le cui autrici/autori finiscono per dare preminenza al vettore d’oppressione che gli è capitato di studiare (o di vivere) maggiormente: le femministe intersezionali danno preminenza all’oppressione di genere2, gli antirazzisti postcoloniali danno preminenza alla dimensione della razza, gli autori queer al dominio della cis-etero-normatività, i marxisti “ortodossi” alla dimensione della classe.

L’impressione è che si cerchi di forzare un’alleanza altrimenti teoricamente instabile, esaltando quegli autori capaci di intrecciare il loro campo d’indagine sull’oppressione con uno diverso. Il problema è proprio questo: individuare il rapporto di oppressione come il quid fondante, una forza che sembra autoriprodursi da sola – e qui torniamo a una prospettiva analoga a quella di Hannah Arendt di un potere ostile che tende ad auto-accumularsi spontaneamente – l’alfa e l’omega dell’analisi, la sostanza che soggiace a una serie di epifenomeni (siano essi razza, classe, genere, cis-etero-normatività, abilismo…) tutti in fin dei conti sostanzialmente equivalenti tra di loro, diversi solo per forma.

Il rischio ultimo è la naturalizzazione del rapporto di oppressione stesso3, che sfugge a determinazioni formali, o meglio, “sguscia” dall’una all’altra (è il dominio di classe che rafforza quello di razza, ma quello di classe è rafforzato da quello di genere, che è rafforzato da quello cis-etero-normativo, che è rafforzato da quello abilista..): la soluzione più ovvia è proiettare eventuali soluzioni, che saranno sempre per definizione molto circostanziate e limitate a livello di spazio e tempo, e si concentreranno non tanto sul campo politico quanto su quello antropologico, per mantenere intoccato un paradigma generale che scade nel generico e nell’astrazione improduttiva.

Cerchiamo allora un’alternativa all’oppressione come quid della nostra analisi. Ripartiamo dal materialismo: come va avanti una società presa nella sua totalità? Quindi, come produce e riproduce ciò di cui ha bisogno? Quali regole organizzative si dà, e, conseguentemente, quali forme ideologiche assume per legittimare un’eventuale contraddizione tra alcune sue parti?

La base fornitaci da Marx consiste nell’individuare, con l’avvento della dominazione dell’uomo sull’uomo (o donna, soprattutto riprendendo l’origine della famiglia di Engels poi ulteriormente sviluppata e rielaborata dalle femministe marxiste) l’avvento della società divisa in classi (certo, non limitata alla modernità come sembra suggerire Bouteldja in una delle citazioni riportate).

Questo non toglie alcuna centralità ai vettori di oppressione di genere, razza, cis-etero normatività, abilismo. Si afferma infatti che ognuno di questi vettori è centrale nel mantenimento di un rapporto di dominio – più o meno egemonico – di dati gruppi di persone su altre in virtù di una data configurazione economico-sociale, e tende inevitabilmente a rafforzare gli altri vettori.

Senza però una struttura fondata materialmente, una data configurazione socioeconomica centrata su una modalità di produzione e riproduzione (schiavismo, feudalesimo, mercantilismo, capitalismo, socialismo…) crolla o, meglio, passa a un differente modo di produzione. La forma ideologica ha sicuramente un ruolo rilevante nel mantenimento di un dato sistema, così come forme di lotta contro-egemoniche hanno un corrispondente ruolo nel ribaltarlo: certo è che queste forme sgorgano necessariamente dal sostrato materiale che legittimano/delegittimano.

Il punto allora è capire come fare un’analisi di classe del razzismo, un’analisi di classe del patriarcato, un’analisi di classe del colonialismo e dell’imperialismo, un’analisi di classe della cis-etero normatività, un’analisi di classe dell’abilismo. Mi rendo conto, è un lavoro noioso che parla un linguaggio “vecchio” e sa tanto del “marxista ortodosso” che giusto poco prima sembravo criticare: mi rendo conto dell’apparente contraddizione, ma sostengo che la tesi che sto qui dimostrando sia semplicemente una posizione logicamente conseguente di una comprensione materialista dell’intersezionalità.

Beninteso, il paradigma intersezionale può andare in una direzione più liberal-idealistica, ragionando di rette di oppressione che si intersecano in uno spazio sociale sostanzialmente indeterminato, o favorire un’interpretazione deterministica – senza però cadere in facili funzionalismi né abdicando alla dialettica – e materialisticamente fondata delle rette di oppressione stesse. Insomma, il punto di una buona teoria di astrofisica non è speculare vanamente se due corpi celesti si scontreranno, ma capire quali sono le forze alla base che potrebbero farli scontrare, testare le proprie ipotesi, arrivare a una sintesi e ripartire con un nuovo tentativo di analisi.

Questo è il fondamento di quella che Gramsci chiamava la teoria della praxis: comprendere le forze in azione in un dato contesto sociale, cercando di risalire a quelle fondamentali, fino a giungere a una teoria della gravità che, nella società dove vige ancora il dominio dell’uomo sull’uomo, è la lotta di classe, che produce e riproduce continuamente tutti gli altri vettori di oppressione MA, al contempo, è anche ben radicato nel modo di produzione da cui tutti i protagonisti di tale lotta dipendono.

Restano altre due possibili critiche alla tesi che sto qui ponendo. Nell’ordine:

  1. In realtà non stai proponendo un paradigma realmente alternativo a quello di Bouteldja, che a sua volta pesca direttamente da quello di Crenshaw4: tu parli del dominio di classe spiegandolo come l’oppressione dell’uomo sull’uomo e identificandolo come l’elemento comune a tutte le altre discriminazioni, mentre il paradigma intersezionale identifica l’oppressione in sé come il quid stesso da indagare. Insomma, mentre l’intersezionalità attacca l’oppressione in quanto tale, tu ne dai solo una definizione più arzigogolata.

  2. La tua posizione è intimamente riduttivista: perché la contrapposizione tra lavoratori e capitalisti dovrebbe avere qualche privilegio interpretativo rispetto alle lenti delle altre discriminazioni?

La prima critica merita effettivamente un chiarimento: l’oggetto dell’analisi marxista non è l’oppressione in quanto tale, sebbene la divisione in classi della società si possa definire come la materializzazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo (vogliamo però far notare come tale definizione resti decisamente vaga); l’oggetto dell’analisi marxiana è la divisione in classi della società presa come totalità dialettica e, solo successivamente, la dinamica di sfruttamento, dominio e oppressione di una classe su di un’altra.

In breve, la teoria marxiana afferma che nella storia umana la divisione in classi ha sempre necessariamente portato a dinamiche di sfruttamento di alcune classi sociale su altre e, conseguentemente, di oppressione e dominio. Questi rapporti sono però determinati da rapporti produttivi e riproduttivi tra le classi e funzionali alla riproduzione della società nel suo complesso o di una classe in particolare: in quest’ultimo caso, la classe che riesce a determinare la risultante della produzione sociale deve essere capace di influenzare le altre classi attraverso dinamiche di dominio o egemonia.

Il punto di origine dell’analisi marxista consiste nel capire cosa viene a monte dell’oppressione – che non è consustanziale all’uomo, ma alla società divisa in classi, quindi non richiede una soluzione antropologica, ma innanzitutto politica – anche per aiutarci a capire cosa può venire dopo: una società che supera la divisione in classi, la quale a sua volta comporta una serie di fratture fondamentali, come quella di genere, di razza, produce una “normalità” sessuale e via dicendo, le quali non sono funzionalità alla società presa nella sua totalità ma solo a una parte di essa.

Insomma, un’analisi focalizzata a capire come l’oppressione si situi in uno spazio determinato dalle esigenze materiali della società divisa in classi e dalle sue contraddizioni ci permette molto più facilmente di immaginare una società capace di superare la divisione in classi senza però immaginare chimere impossibili che ignorino la materialità delle posizioni delle persone al suo interno.

Per quanto concerne il secondo punto, è utile in realtà per sgomberare il campo da un tipico fraintendimento, ovvero credere che il conflitto capitale – lavoro, il conflitto di classe del nostro modo di produzione, sia in realtà una modalità arcaica per intendere il conflitto profitto vs capitale. Ecco, si parla di conflitto capitale-lavoro anziché di conflitto salario-profitto perché non sono la stessa cosa, o meglio: il conflitto capitale-lavoro rappresenta una totalità più ampia che comprende anche lo svolgimento dialettico del conflitto salario-profitto.

Che ci piaccia o meno, nel conflitto capitale-lavoro siamo immersi tutti, ma proprio tutti: questa spaccatura determina in modo sostanziale chi vive del lavoro degli altri – o meglio, del loro sfruttamento – e chi non potrà fare altro che lavorare per ottenere un’aliquota – spesso misera – di quanto ha prodotto. Ora arriva la parte interessante: in questo conflitto, le identità hanno un ruolo limitato, per quanto fondamentale, nello spiegare la posizione stessa degli individui rispetto ad esso. Già, perché la posizione è data dalla classe o, meglio, la classe è la posizione stessa in cui si trova un individuo interessato da questo conflitto, ovvero, come abbiamo detto sopra, tutti.

Le identità ci aiutano a comprendere in modo più profondo la posizione – la classe – degli individui evidenziandoci come la classe non sia un tutto organico, ma rappresenti a sua volta una totalità dialettica. Tale totalità dialettica, se subalterna all’interno di un dato modo di produzione, condivide l’interesse oggettivo5 nel ribaltamento del sistema di classi. Ribaltamento della società in classi significa però al contempo risanamento delle fratture da cui fuoriescono i conflitti identitari, non nel senso del “una volta che faremo una rivoluzione socialista non ci sarà più – magicamente – oppressione di genere, di razza, di orientamento sessuale e via dicendo”, ma: “non ci può essere rivoluzione socialista se nello stesso momento non si ricompongono tali fratture”.

Questo non per un astratto moralismo, ma perché senza una ricomposizione interna degli interessi di classe l’interesse oggettivo del ribaltamento del sistema svanisce, e di conseguenza anche la sua messa in moto6. Questo è tipico dei rossobruni: confondere la totalità dialettica -marxista- con la totalità organica -tipica dell’idealismo hegeliano e quindi con una radice condivisa col fascismo -, confondere la classe con un tutto che deve muoversi unito quando unito non è significa cercare di forzare un’alleanza impossibile ignorando il necessario svolgimento dialettico al suo interno.

Ovviamente resta un altro punto scoperto nella mia tesi, ovvero il suo stesso fondamento materialistico: qualcuno, leggendo quanto sopra, potrebbe molto semplicemente sostenere che il materialismo non sia un buon fondamento per una piena interpretazione della realtà sociale, o sia perlomeno insufficiente. A questo riguardo, penso che sia utile fornire un breve chiarimento: il materialismo non consiste nel sovradeterminare qualsiasi scelta individuale alla base economica – i rapporti di produzione/riproduzione, le forze produttive/riproduttive in gioco – ma comprendere la dialettica di fondo delle forze socioeconomiche alla base fino alle sue espressioni più sovrastrutturali, quindi ideologiche che hanno un effetto fondamentale sulla loro stessa base.

Qui, ovviamente, le sfumature possono avere un peso determinante nell’analisi complessiva: se uno studioso materialista dell’imperialismo considera il momento economico come molto più rilevante nella determinazione dei suoi effetti finali rispetto a uno studioso che dà più centralità al momento sovrastrutturale, l’analisi chiaramente divergerà. Questo a mio avviso non è un male: il materialismo marxista serve a fornire una griglia interpretativa comune con la capacità immaginativa di costruire in modo molto concreto una società senza classi, ma il come utilizzare tale griglia sta alla capacità analitica di chiunque voglia studiare la realtà sotto questa prospettiva.

Se invece il punto è allontanarsi dal materialismo tout court probabilmente il rischio è quello di studiare uno spazio sociale sostanzialmente indeterminato, come dicevo poco sopra, e, ancora più importante, non considerare la reale fattibilità di determinate politiche poiché non se ne studia a dovere la base concreta su cui esse si dovrebbero poggiare.

Difficile in tal caso immaginare una strategia di indipendenza ed autorganizzazione della classe – quella totalità che, non ci stanchiamo di dirlo, è al suo interno diversa, dialettica e costituita da posizionamenti molteplici che si riconoscono però in una condizione oggettiva comune rispetto al sistema produttivo-riproduttivo – quella classe che deve costruirsi, in ottica socialista, come classe egemone.

1 https://www.lavocedellelotte.it/2023/03/24/marxismo-intersezionalita-e-politiche-di-coalizione/

2 Tengo qui a porre una distinzione tra femministe intersezionali e femministe intersezionali marxiste: mentre le prime ricadono più spesso nell’esempio che pongo, le seconde, criticando proprio questa indeterminatezza di fondo dell’intersezionalità “classica” si concentrano di più sulla base materiale dell’oppressione di genere e aggiungono la dimensione fondamentale e spesso marginalizzata della riproduzione all’interno dell’analisi materialista. Tra queste possiamo annoverare Barbara Foley (si veda a proposito Foley, B. (2019). Intersectionality: A Marxist Critique), Silvia Federici (Federici, S. (2020). Genere e Capitale: per una lettura femminista di Marx. DeriveApprodi) e Nancy Fraser (Fraser, N., & Naples, N. A. (2004). To interpret the world and to change it: An interview with Nancy Fraser. Signs: Journal of Women in Culture and Society).

3 Si legga a proposito l’analisi offerta da Mimmo Cangiano (Cangiano, M. (2024). Guerre culturali e neoliberismo. Nottetempo.), cui buona parte del presente articolo è ispirata.

4 Kimberle Crenshaw (1989), Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, The University of Chicago Legal Forum.

5 Da non confondere qui “oggettivo” come “assoluto”: si intende “oggettivo” qui come indipendente dalla volontà dei singoli individui (in quel caso sarebbe soggettivo), ma razionale dal punto di vista della loro posizione socioeconomica.

6 Per fare un esempio, la classe lavoratrice nera aveva davvero lo stesso interesse materiale della componente bianca della classe lavoratrice nel ribaltare il capitalismo fordista negli Stati Uniti della segregazione? Anche quando la parte bianca delle classe lavoratrice contribuiva attivamente alla sua oppressione (si vedano i numerosi pogrom e linciaggi denunciati tra gli altri Robert F. Williams, in Ne*ri con le pistole, titolo originale: Negroes With Guns (New York, 1962)), favorendo il suo stesso sfruttamento capitalistico?

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