Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2025, il cielo del Medio Oriente si è incendiato, di nuovo, era previsto, prevedibile. Netanyahu, come ogni coraggioso terrorista dedito all’instaurazione dell’eterno assedio, si era nel frattempo rifugiato in un bunker statunitense a Cipro, insieme al primo ministro Benny Gantz, gesto che sarebbe grottesco, se non fosse perfettamente coerente con la drammaturgia bunkerocentrica della politica israeliana contemporanea, Le sirene a Tel Aviv e Gerusalemme, i razzi su Haifa, i bagliori sulle acque scure del Golfo Persico.
I titoli si sono rincorsi: “Missili iraniani su Israele“. “Raid israeliani su Teheran“. E ancora: “Il giacimento di South Pars in fiamme“. “Decine di morti tra i bambini“.
Ma su Gaza, nessun titolo.
Perché Gaza è rimasta cieca. Nella notte precedente, l’ultimo ripetitore radio della Striscia è stato colpito. Le voci si sono spente. Gli occhi elettronici che ancora scrutavano tra le macerie si sono oscurati. Mentre il mondo scrutava i cieli sopra Israele e l’Iran, i droni e gli F-16 hanno continuato il loro volo basso sopra Khan Younis, sopra Rafah, sopra i centri di distribuzione del pane. E sopra i corpi.
Gaza, oggi, è la nota stonata in una sinfonia di deterrenza e rappresaglia. Un frammento di mondo che si consuma al buio, nella più totale assenza di sguardi. Mentre ci si interroga su scenari di guerra nucleare, mentre si invocano escalation “gestibili” e conflitti “a bassa intensità”, una guerra alta, altissima intensità è già in atto da venti mesi, con decine di migliaia di civili palestinesi uccisi, infrastrutture annientate, acqua e cibo usati come strumenti di dominio.
In questa cornice, parlare della strategia israeliana senza menzionare Gaza è un’operazione miope, se non colpevole. Jeffrey Sachs, in un’intervista rilasciata al “Fatto Quotidiano“, ha sintetizzato con chiarezza la visione di Netanyahu: non è solo una guerra all’Iran, è un disegno organico, longevo, il cui obiettivo è la cancellazione definitiva dell’ipotesi stessa di Stato palestinese.
Il piano, noto agli analisti da decenni, affonda le sue radici in un documento del 1996 intitolato A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm, redatto da Richard Perle e da altri neoconservatori americani.
Il testo proponeva già allora una ridefinizione del ruolo israeliano nella regione, fondato su un uso assertivo del potere militare, sull’autonomia strategica dagli Stati Uniti e sull’annientamento dei nemici regionali, a partire dalla Siria e dall’Iraq, fino all’Iran.
Ma al cuore di questa visione, vi è la rimozione della questione palestinese. Non più due Stati. Non più negoziazione. Solo scomparsa.
La guerra contro l’Iran, allora, è anche la guerra finale contro il diritto all’esistenza palestinese. E l’invisibilizzazione di Gaza è il sintomo più evidente del successo di questa strategia: fare in modo che nessuno possa più vedere, ascoltare, piangere o indignarsi.
Il 14 giugno, mentre i riflettori erano puntati su Teheran, l’IDF ha colpito centri di distribuzione alimentare a Gaza, provocando fino a 79 morti in un solo giorno. Le immagini, laddove ancora riescono a filtrare, mostrano corpi di bambini ammassati, disperazione tra gli operatori, silenzio istituzionale. E poi evacuazioni forzate, interi quartieri spazzati via, siamo a oltre 665.000 sfollati secondo l’ONU.
Ciò che accade a Gaza non è più solo una guerra: è una cancellazione sistemica, una desertificazione morale. Come ha dichiarato Antonio Guterres, “la regione brucia perché i leader giocano con i fiammiferi“. Ma mentre si discute di deterrenza nucleare e si convoca la diplomazia per fermare l’Iran, chi si muove per fermare l’annichilimento di Gaza?
La risposta è, tragicamente, nessuno. Anzi, la nuova fase dello scontro con l’Iran fornisce l’alibi perfetto per completare l’opera: ogni bomba su Gaza viene riletta come parte di un quadro più ampio, ogni morte come “effetto collaterale” di una guerra più grande.
Eppure, Gaza continua a morire da sola.
In questa cornice, la propaganda corre più veloce delle notizie. Le immagini degli aiuti, i video manipolati, le dichiarazioni incrociate su Telegram: tutto contribuisce a un senso di irrealtà dove è impossibile distinguere il vero dal verosimile.
Mentre l’Iran mostra incendi che avvengono altrove e li attribuisce a Israele, Israele mostra civili in fila ordinati per negare le proprie responsabilità. Hamas parla di “olocausto”. L’IDF accusa i miliziani di nascondersi tra i bambini. Il risultato è che Gaza sparisce. Ancora.
E allora ci chiediamo: Gaza è diventata il prezzo accettabile della geopolitica? Oppure è già stata metabolizzata come zona di non-essere, terra che non merita più nemmeno l’onore del lutto? Netanyahu non ha bisogno di vincere: gli basta che il mondo dimentichi Gaza. Ed è esattamente questo che accade.
In un mondo dove anche la morte deve guadagnarsi uno spazio di visibilità per contare, Gaza è il paradigma del corpo che non conta, della vita che non entra nel calcolo. Lì dove la morte non fa rumore, la politica si arroga il diritto di riscrivere i confini dell’umano.
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Pasquale
I pezzi di merda si sono inventati la storiella della ‘pistola fumante’ contro l’Iran e gli stronzi l’hanno strombazzata. E così Gaza scompare dai radar ma continua a morire.