E’ stata appena approvata la manovra economica del governo che già Unione Europea e Confindustria tornano di nuovo alla carica invocando la prima misure aggiuntive e la seconda una terapia d’urto che portino l’Italia al di fuori dalla “maledizione” dei Piigs. Contemporaneamente, i reportage dalla Grecia ci descrivono le ferite profonde che le misure imposte dalla Bce hanno già imposto al corpo sociale di quel paese rendendo comuqnue il debito pubblico greco ancora più elevato. La porta girevole delle politiche di aggiustamento dei bilanci pubblici, è ormai un paradosso tanto evidente che più di qualche istituzione insospettabile – dal Fondo Monetario alla Banca d’Italia – sottolinea come non possano che avere effetti recessivi su tutti i paesi euro-mediterranei che sono stati costretti ad adottarle.
L’Italia paga ancora le conseguenze delle terapie d’urto degli anni Novanta (quelle dei governi Amato, Ciampi, Prodi) adottate per entrare nei parametri di Maastricht e poi nell’Unione Economica Monetaria dei paesi europei che hanno adottato l’Euro. Nonostante questo da un lato il debito pubblico non è affatto diminuito ma è aumentato dal 106% del Pil nel 1992 al 120% del 2011, dall’altro le misure antisociali messe in campo in questi ultimi anni hanno devastato servizi sociali strategici come sanità, istruzione, previdenza, trasporti; hanno ridotto del 37,9% in soli dieci anni il potere d’acquisto di salari e pensioni, hanno continuato a trasferire enormi risorse pubbliche e ricchezza dal lavoro e dal risparmio delle famiglie alla rendita finanziaria rappresentata da banche, società di assicurazione, fondi d’investimento italiane e stranieri. (1)
In questo spostamento di ricchezza ci hanno rimesso soprattutto i lavoratori dipendenti, i giovani costretti alla precarietà e alla disoccupazione, i pensionati che hanno dovuto esaurire i loro risparmi per assicurare reddito, abitazioni, finanziamenti alle generazioni successive ormai private di presente e di futuro. Ma in qualche modo ci hanno rimesso anche i profitti generati dall’economia reale basata sulla produzione di beni, soppiantata da una corsa alla rendita speculativa, finanziaria e immobiliare, che ha contribuito alla distruzione degli investimenti e del tessuto industriale del paese.
Il gioco della porta girevole sul debito pubblico – aumentare l’indebitamento per pagare il debito – ha agito su questa realtà sociale stravolgendone l’esistenza e lo status (con la proletarizzazione dei ceti medi) e manipolandone le priorità e le percezioni (con la minaccia del default ).
Chi sono i proprietari del debito pubblico italiano?
La mappa del possesso dei titoli del debito pubblico italiano, visualizza perfettamente questo immenso spostamento di ricchezza dal risparmio delle famiglie (il c.d. Bot people) alle banche e alle società finanziarie.
Una elaborazione della banca d’affari Morgan Stanley, ci aiuta a capire meglio come stanno le cose. Infatti se nel 1991 il debito pubblico era per il 58,6% in mano alle famiglie – sia quelle più ricche sia quelle che avevano investito liquidazioni, qualche risparmio e piccole eredità nei Bot e nei titoli di stato – oggi questa quota è crollata al 14%, mentre i titoli del debito italiano in possesso degli investitori stranieri (banche, fondi,assicurazioni) è schizzato dal 6% del 1991 al 43% del 2010. Occorre sottolineare che, in confronto agli altri paesi Piigs, tale percentuale rimane bassa, cioè il debito pubblico del nostro paese relativamente al resto di Europa, è a forte carattere interno. Infatti anche banche, finanziarie,assicurazioni e fondi di investimento “italiani” (un eufemismo nell’epoca della finanza globale) che nel 1991 possedevano il 25% dei titoli, oggi ne posseggono il 38%, é dunque evidente che la forte percentuale di investitori interni del debito pubblico italiano non è più attribuibile come una volta alla famiglie in veste di grande “formiche risparmiatrici”. La Banca d’Italia infine possiede una piccola del 4% dei titoli del debito pubblico italiano. Riassumendo: l’81% dei titoli del debito pubblico italiano sono nelle mani di banche, assicurazioni e fondi di investimento, società finanziarie siano esse straniere o italiane. (2)
Passando dalle percentuali ai numeri, si può in qualche certificare che su un debito pubblico più o meno di 1.400 miliardi di euro, le entità finanziarie francesi posseggono titoli del debito italiano per 511 miliardi di euro; quelle tedesche per 190 miliardi; quelle anglo-sassoni per 77 miliardi, quelle spagnole per 31 miliardi. (3)
Più della metà del totale debito pubblico italiano è quindi nelle mani dei cosiddetti “investitori esteri” e i quattro/quinti del debito sono nelle mani di banche e soggetti finanziari privati; questo dato, considerato congiuntamente all’abbassamento della propensione al risparmio delle famiglie e considerato quanto emerge dalle indagini giudiziarie, fa individuare un forte interessamento ai titoli del debito pubblico italiano, da parte di società finanziarie prestanome “di rispetto”, direttamente funzionali a quell’economia criminale che ne percepisce chiaramente una modalità pulita e conveniente ai fini di realizzare una buona rendita ma soprattutto un metodo sicuro per il riciclaggio di denaro sporco .
Sta in questa dimensione la maledizione dell’Italia tra i paesi Piigs: “troppo grande per fallire, troppo grande per essere salvata”. Ma, come si dice, la situazione è tutt’altro che stabile e i punti di rottura dentro questa crisi possono essere molteplici e imprevedibili.
Chi piangerebbe sul mancato pagamento del debito pubblico?
Dunque se l’Italia non pagasse il suo debito pubblico, a doversi preoccupare sarebbero soprattutto le banche, le compagni assicurative e i fondi di investimento in gran parte stranieri e in misura minore italiane e le grandi famiglie della malavita organizzata che hanno investito abbondntemente sui titoli del debito per riciclare legalmente i capitali sporchi. In misura irrilevante lo sarebbero poi le famiglie più ricche o le poche che in questi anni di crollo del risparmio sono riuscite a mantenere quote di patrimonio più o meno consistenti investite in titoli del debito pubblico italiano.
Tutti questi soggetti, non solo incassano a scadenza la cedola sui titoli di stato italiano, ma incassano ogni anno una media di 70 miliardi di euro di interessi che lo Stato corrisponde ai possessori dei titoli indipendentemente dalla loro scadenza. Quindi già solo congelando il pagamento degli interessi, si avrebbero a disposizione ogni anno risorse finanziarie rilevanti per avviare piani straordinari per l’occupazione, risanare scuola e sanità, investimenti produttivi e infrastrutturali, risorse che verrebbero sottratte una volta tanto alle banche e alle entità finanziarie private e restituite agli interessi collettivi.
La dimensione stessa del debito pubblico accumulato in questi ultimi venticinque anni dall’Italia, le caratteristiche dei possessori dei titoli del debito pubblico, l’enorme sproporzione tra il peso reale delle risorse sottratte agli interessi sociali collettivi dalle misure richieste dalla Bce e dai “governi delle banche” e la loro possibilità di “incidere” su un movimento globale degli investimenti nell’ordine delle migliaia di miliardi di dollari al giorno, fanno dire ormai a settori crescenti del sindacato, dei movimenti sociali, della politica e della cultura che il debito non può e non deve essere più pagato da lavoratori, disoccupati, pensionati, giovani.
Non solo questi settori hanno “già dato!” in questi venti anni gettando nel secchio bucato del pagamento del debito e degli interessi sul debito qualcosa come 430 miliardi di euro tra tagli ai servizi sociali, nuove imposte, blocco dei salari e delle pensioni, riduzione prestazioni previdenziali, privatizzazioni etc., ma adesso gli si chiede di riprendere la giostra della porta girevole con nuovi tagli, sacrifici, rinunce a diritti acquisiti, negazione di ogni vera prospettiva di lavoro, di reddito, di salario, pensione e di servizi sociali degni di questo nome.
Un campagna di massa contro il pagamento del debito pubblico e per la democrazia
E’ ormai evidente come quaranta o cinquanta miliardi di euro in tagli alle spese e nuove imposte, pesino enormemente sulle condizioni di vita dei settori popolari ma siano del tutto insignificanti nel casinò globale dei mercati finanziari internazionali. Ritenere che la soluzione alla questione del debito pubblico possa passare attraverso ripetute manovre “lacrime e sangue” dei vari governi, è una sanguinosa menzogna che occorre demolire agli occhi della società.
A questa sanguinosa menzogna si può e si deve contrapporre una soluzione diversa e alternativa fondata sul non pagamento del debito, la nazionalizzazione delle banche e la irrinunciabilità della democrazia. Il nesso tra non pagamento del debito e questione democratica è infatti strettissimo e torna ad essere materia che porta direttamente al nodo del cambiamento politico di sistema.
La questione dirimente infatti non è sul “se, il come o il quando pagare il debito”, il problema è che “il debito non va pagato” per imporre un nuovo ordine di priorità all’uso delle risorse disponibili nel nostro e negli altri paesi sottoposti al massacro sociale imposto dalla Bce o dall’Ecofin dell’Unione Europea.
In tutti i paesi ipotecati dal debito (quello estero negli anni ottanta e novanta nei paesi in via di sviluppo, quello pubblico nei paesi europei nel XXI Secolo), la popolazione è stata non solo vessata dalle manovre lacrime e sangue e dalle terapie d’urto – ieri quelle del Fmi e della Banca Mondiale, oggi quelle della Banca Centrale Europea – ma è stata sistematicamente espropriata di ogni sovranità o possibilità di decidere sulle soluzioni adottate. Sistemi elettorali maggioritari, autoritarismo dei governi e sedi decisionali sopranazionali, hanno impedito con ogni mezzo che la società potesse esprimersi sulle scelte decisive, magari anche scegliendo poi di fare i sacrifici richiesti ma solo dopo essere stata consultata, informata e messa nelle condizioni di decidere.
Nell’Unione Europea oggi questo tema è stato posto all’ordine del giorno sulla base di una divaricazione incompatibile tra democrazia e capitalismo. I governi delle banche, veri e propri governi unici ormai e indipendentemente dal partito/coalizione al governo, applicano una governance oligarchica e unilaterale decidendo nelle sedi europee i provvedimenti che dovranno essere adottati e certificati nei singoli paesi. E la discussione stessa si sintetizza in quelle sedi privando di decisionalità sia i parlamenti sia le istanze sociali che possono solo ricorrere agli scioperi e agli scontri di piazza per segnalare la loro opposizione alle misure lacrime e sangue.
La stragrande maggioranza dei partiti parlamentari votano poi i provvedimenti o ne agevolano l’approvazione in nome dell’obbedienza alla superiore istanza europea che viene sbandierata ancora come baluardo rispetto all’instabilità e garanzia di un assetto democratico che occorre salvaguardare anche a costo di misure antipopolari. La rappresentanza politica istituzionale subisce così un ulteriore arretramento che ne svuota ogni contenuto democratico e di rappresentanza sociale.
Questa contraddizione – segnalata con forza dai movimenti degli Indignados spagnoli – appare ormai dirimente in un paese-limite come l’Italia.
Infatti se in altri paesi si sono potuti tenere dei referendum sui vari aspetti dell’integrazione nell’Unione Europea, nel nostro paese questa possibilità democratica è stata sistematicamente negata con effetti molto gravi. In Francia e in Olanda, la società ha potuto discutere e votare sulla Costituzione Europea, in Danimarca, Svezia, Irlanda, Norvegia si sono potuti tenere referendum sull’adesione o meno all’Eurozona o alla stessa Unione Europea. In Islanda addirittura c’è stato il recente referendum che ha sancito il non pagamento dei debiti delle banche. In Spagna, gli Indignados e i movimenti della sinistra e repubblicani hanno chiesto un referendum contro l’introduzione del vincolo di bilancio nella Costituzione
Queste sono state tutte occasioni in cui la gente ha dovuto/potuto informarsi ed esprimere la propria volontà. Il problema per l’establishment europeo, semmai, è che ogni volta che la società dei vari paesi si è potuta esprimere democraticamente, ha votato contro i progetti dell’oligarchia istituzionale e finanziaria bocciandoli sonoramente. .
In Italia niente di tutto questo è stato fino ad oggi possibile perché la Costituzione vieta i referendum in materia di leggi di bilancio e di trattati internazionali. Questo limite “oggettivo” ha permesso da un lato a tutti i partiti, inclusi purtroppo anche quelli della sinistra radicale, di marginalizzare l’analisi e il dibattito sulla natura imperialista dell’Unione Europea, dall’altro ha impedito che le questioni europee trovassero interesse e attenzione in vasti strati della società. Il sistema bipartizan, approfittando di entrambe le condizioni, ha sempre veicolato un europeismo enfatico ed acritico come un dogma che abbiamo visto operare in sede di approvazione della manovra finanziaria imposta dalla “lettera della Bce”.
In realtà questa è ormai una foglia di fico, sia perché nel 2001 il centro-sinistra promosse il referendum confermativo su materia costituzionale come il titolo V della Costituzione (sul federalismo), sia perché è inaccettabile che venga introdotto il pareggio di bilancio nella Costituzione ma si impedisca – trincerandosi dietro la Costituzione – un referendum su questa modifica così rilevante (e del tutto assurda da ogni punto di vista, NdR).
Proposte e soluzioni da discutere e su cui agire
Di fronte all’annodarsi della crisi sistemica del capitalismo che sta colpendo soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione Europea (i Brics al contrario non vanno affatto male), si vanno affacciando analisi e proposte che in qualche modo indicano una controtendenza rispetto alla subordinazione – magari critica ma sempre subordinazione – ai diktat della Bce, delle istituzioni finanziarie internazionali e dei governi unici delle banche.
La campagna sul non pagamento del debito e la democrazia che verrà discussa e lanciata il prossimo 1 ottobre, va in questa direzione. E’ chiaro che se dobbiamo indicare una alternativa al massacro sociale e all’autoritarismo crescente, non possiamo sottrarci dall’indicare delle soluzioni.
A settembre Joseph Halevi ha scritto un ottimo saggio su Il Manifesto nel quale sottolinea giustamente che “il nodo é rompere la sudditanza verso il pagamento del debito pubblico come fonte di rendite delle società finanziarie e anche delle grandi imprese, in gran parte a loro volta finanziarizzate”. Halevi diventa però prudente nel passaggio dall’analisi all’indicazione politica e scrive: “Affinché questo ragionamento abbia sbocchi pratici é necessario entrare nel contenuto della spesa pubblica e rilanciare il ruolo ridistributivo della fiscalità. Nell’oscurantismo imperante, però, la mia é una pura illusione” (4).
Il problema infatti è quello di costruire non una “campagna di opinione” sul non pagamento del debito, ma una campagna politica e di massa che non nutra illusioni velleitarie e la collochi ben dentro il senso comune della gente e il conflitto di classe nei vari settori sociali.
Il non pagamento del debito è una di queste soluzioni che possiamo mettere in campo, consapevoli però che questa battaglia implica un cambio di paradigma nelle priorità del sistema politico ed economico in cui operiamo. Non è infatti possibile disgiungere dal non pagamento del debito la questione della nazionalizzazione delle banche, perché è soprattutto il debito “pubblico” verso le banche quello che va eliminato. Si tratta di due misure complementari che rimettono al centro l’interesse collettivo a scapito degli interessi privati che si sono rivelati antagonici proprio verso gli interessi della collettività, costringendola a dissanguarsi per riempire di liquidità i bilanci delle banche, evitare che fallissero e regalandogli la possibilità di lucrare sui titoli del debito pubblico.
Ma il dibattito si va facendo più avanzato anche sul terreno delle soluzioni strategiche nella dimensione europea.
Un libro di prossima uscita edito dalla Jaca Book – “Il Risveglio dei maiali”, e scritto da L.Vasapollo in collaborazione con J.Arriola, R. Martufi, avanza l’idea di un’area monetaria euromediterranea – viene indicato a tale scopo anche l’acronomo “Alias” – tra i paesi Piigs, la sponda sud del Mediterraneo e i paesi dell’Europa dell’est per sottrarre questi paesi all’implosione che deriva dall’egemonia del cosiddetto “polo carolingio” dalla nitida natura imperialista (Francia, Germania, Austria, Olanda, Fiandre, Padania) il quale sta piegando le economie dei paesi deboli dell’Europa ai propri interessi commerciali, finanziari e industriali.
Urge dunque, second gli autori, una via d’uscita all’implosione politica e sociale che però passa per la fuoriuscita dall’UEM (Unione Economica Monetaria europea) e dal dotarsi anche di una propria moneta diversa dall’Euro. “Risulta imprenscidibile per l’affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo per l’insieme della popolazione della nuova area monetaria Alias…. In una seconda tappa dopo la sua costituzione nei paesi della periferia dell’Eurozona, la nuova moneta e le nuove condizioni di sviluppo sociale ed economico devono diventare una proposta d’integrazione diretta alle altre periferie del capitale europeo: la periferia dell’Est Europa e quella dell’Africa mediterranea” sostengono gli autori nel loro libro/manifesto politico (5).
Ad una conclusione simile, giungeva mesi fa anche un altro economista marxista come Bruno Amoroso, il quale in un saggio scrive che “Per quanto ci riguarda è necessario che si pervenga rapidamente ad una iniziativa valutaria dell’Europa mediterranea che introduca un Euro mediterraneo comprendente la Francia e tutti i paesi dell’Europa del Sud. Questo riporterebbe la sovranità economica e monetaria al servizio degli obiettivi decisi dai governi e dalle istituzioni di questa grande meso-regione europea” (6).
Una rottura della subalternità della politica
Se guardiamo al di fuori di una logica meramente eurocentrista e facciamo tesoro delle esperienze di altre aree del mondo, non puo’ che tornare utile il confronto con i movimenti sociali e le forze intellettuali che hanno condotto la battaglia contro il pagamento del debito nei paesi dell’America Latina. In diversi di questi paesi, la ripresa dello sviluppo economico interno e il significativo cambiamento politico che li ha sottratti ai dogmi e ai provvedimenti liberisti, ha coinciso proprio con la mobilitazione dei movimenti sociali e poi con la decisione di alcuni governi di non pagare il debito. Insomma esperienze concrete da cui una volta tanto la sinistra europea dovrebbe cominciare ad apprendere piuttosto di dare lezioni in giro per il mondo.
L’incontro nazionale del 1 ottobre a Roma lanciato dall’appello “Dobbiamo fermarli” può essere una prima occasione straordinaria per indicare sia un’agenda di lotta che un percorso di approfondimento sulle soluzioni e le alternative alla crisi del capitalismo. Oggi, nel nostro paese, non c’è nessun soggetto politico che affermi pubblicamente queste cose e ne faccia derivare una azione conseguente nel conflitto sociale. E’ tempo che una vasta coalizione di forze politiche, sociali, sindacali, intellettuali prenda in mano questa opportunità sula base di una convinta indipendenza politica e la rovesci contro un avversario che rivela ogni giorno di più il suo “odio di classe” contro i nostri settori sociali di riferimento.
* Rete dei Comunisti
Note:
(1) Un recente rapporto diffuso dal Casper afferma che dall’introduzione dell’euro a oggi, i prezzi sono aumentati del 53,7% e che il potere d’acquisto di salari e pensioni ha perso il 39,7%, inserto “Tuttosoldi” su La Stampa del 12 settembre
(2) La Morgan Stanley ha elaborato questi dati sulla base di quelle forniti dalla Banca d’Italia nel 2010. I dati sul 1991 sono della Banca d’Italia. La rivista del Cestes, “Proteo”, ha documentato nel numero di primavera la composizione effettiva del debito pubblico italiano sia sul piano del debito interno che di quello estero. Da quei dati si desume che il termine “debito sovrano” è del tutto incongruo e strumentale alle campagne terroristiche e mediatiche sui rischi sociali del default.
(3) I dati sono indicati nell’articolo “Così la nuova schiavitù dei debiti incrociati crea il contagio globale”, Federico Rampini in La Repubblica del 7 agosto 2011
(4) “Una cacofonia oscurantista”, Joseph Halevi, su Il Manifesto del 4 settembre
(5) “Il Risveglio dei Maiali”, edizioni Jaca Book, settembre 2011
(6) “L’impatto sociale delle politiche europee”, Bruno Amoroso su “Insight”, gennaio 2011
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