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La “morte” del modello sociale europeo

Non è morto, ma Draghi vuole superarlo
Galapagos

«Lo stato sociale europeo è morto». E chi lo dice? Mario Draghi, presidente della Bce. O meglio, lo ha scritto il sito del Corriere della sera che – a quanto ci hanno detto – ha ripreso un lancio dell’Ansa. Dopo una quarantina di minuti c’è stato un contrordine: l’Ansa aveva tradotto male una intervista di Draghi al Wall Street Journal e il Corrierone aveva abboccato. Insomma, lo stato sociale europeo non è morto, ma non è che se la passi troppo bene. E Draghi vuole dargli una bella botta. Perché, anche se l’ultima crisi ha dimostrato che lo stato sociale «è tutt’altro che morto» (questa la traduzione corretta) occorre ridimensionarlo tenendo conto del mondo che cambia.

Anche perché – sostiene Draghi – «è duro dire se la crisi è finita», ma anche perché cavalieri bianchi in vista (il riferimento è ai capitali cinesi) non se ne vedono. Risultato: l’Europa si deve salvare da sola. E la ricetta suggerita dal presidente delle Banca centrale europea non ammette equivoci: occorre un piano generalizzato di privatizzazioni/liberalizzazioni e un profondo riassetto del mercato del lavoro. Insomma, è tutto il sistema sociale europeo che deve cambiare adattandosi ai tempi.
Per Draghi l’Europa non è più il mondo di Bengodi, quello del welfare «dalla culla alla tomba», come si diceva un tempo con riferimento soprattutto ai paesi nordici. C’è una risposta di Draghi che illustra perfettamente questa posizione. Rivolgendosi all’intervistatore, Draghi afferma: «Come lei sa c’era un tempo nel quale l’economista Rudi Dornbusch era solito affermare che gli europei sono così ricchi che si possono permettere di mantenere chiunque per non lavorare». E conclude: «Questo tempo è finito». Sia ben chiaro, Draghi non è un forcaiolo, ma esprime (piuttosto bene) un concetto caro alla attuale classe dirigente europea: tutti devono lavorare e devono lavorare fin che morte non sopraggiunga. O quasi. Non a caso la riforma delle pensioni di Monti-Fornero si muove lunga questa direttrice e non è un caso che sia piaciuta tanto agli altri governanti europei.
Siamo di fronte a un progetto generale di cambiamento della vita di centinaia di milioni di persone. Il tutto secondo la logica di una piramide che vede al vertice gli intoccabili. Ovvero la finanza. Certo, Draghi ha fatto proposte per cercare di democratizzre un po’ il settore finanziario, ma una volta al vertice della Bce è stato «costretto» a intervenire massicciamente per dare ossigeno (centinaia di miliardi di euro) alle banche. Ossigeno, invece, non ce n’è per le famiglie e per migliaia di imprese medio piccole, soffocate dalla mancanza di credito e soprattutto dalla mancanza di lavoro, da una disoccupazione dai numeri giganteschi in moltissimi paesi.
Pensare che basti la flessibilità assoluta nel mondo del lavoro, mandare i pensione la gente più tardi, privatizzare e liberalizzare ogni attività possa portare il sistema globale a una nuova epoca d’oro è errato. Draghi dovrebbe saperlo bene: l’unico periodo felice nel mondo fu (relativamente) nel dopoguerra quello dell’applicazione delle ricette keyesiane, della diffusione dello stato sociale che oggi vorrebbe ridimensionare.

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