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La Ue si sfarina, il mercato non è per nulla unico

La preoccupata analisi di Adrana Cerretelli, sul Sole24Ore, per l’evidente “rinazionalizzazione” degli sforzi da parte dei vari paesi europei, a cominciare da quelli “forti”.

Se diventa una colpa la geografia

Adriana Cerretelli
In Germania si avvertono segnali di ripresa: in dicembre, sono notizie di ieri, la produzione industriale è salita dello 0,3% (-1,1% annuo), quella manifatturiera dell’1,2%, i disoccupati sono scesi al 6,8%, il minimo degli ultimi 20 anni. In Spagna si aggrava la recessione: la produzione industriale, sempre in dicembre, è crollata dell’8,5% annuo, ha travolto tutti i settori mettendo a segno il quarto anno di flessione escluso il 2010. I disoccupati sono al 26 per cento.

Stessa Europa, stessa eurozona, stesso mercato unico, eppure due Paesi, due economie e due società che più divergenti non si potrebbe. Se si aggiunge la variabile finanziaria, la divaricazione diventa ancora più plateale.
Con un interrogativo: fino a quando la governance comune, compresa quella della Bce, potrà riuscire a rappezzare la tela sempre più logora di un’Europa che, sotto il pungolo della crisi finanziaria e dell’emergenza euro, invece di ricompattarsi, non ha mai smesso, sia pure in sordina, di sfarinarsi facendo emergere i peggiori istinti e i più biechi interessi nazionalistici?
Non c’è soltanto il rigore a senso unico imposto ai Paesi dell’arco mediterraneo e la pesante recessione che ne è seguita ad allontanare il Sud dal Nord dell’Europa. Non ci sono solo i divari nel finanziamento del debito sovrano, con i ricchi che si approvvigionano a costi risibili mentre i più poveri sono costretti a farlo a prezzi proibitivi. Lo stesso spartiacque vale per le imprese.

Le aziende sono avvantaggiate o penalizzate da ampi scostamenti nei tassi di interesse non per meriti o demeriti propri ma secondo la loro collocazione geografica, con evidenti distorsioni di concorrenza nel mercato unico, che in questo modo diventa sempre meno unico. Senza contare che la crisi finanziaria insieme a quella dell’euro hanno portato a una rinazionalizzazione strisciante dei capitali, rimpatriati un po’ da tutti i Paesi e banche senza clamore ma con grande metodo. Al punto che Bruxelles si è sentita in dovere nei giorni scorsi di aprire un’inchiesta per sospetta e illecita turbativa del mercato unico.
In questo panorama europeo sempre più balcanizzato non c’è solo la dicotomia stabilità finanziaria-crescita economica a seminare tensioni e discordie. Anche la gestione della politica monetaria unica diventa un esercizio acrobatico sempre più difficile perché esibito su una coperta europea sempre più lacera e stretta.
E così quando Mario Draghi mantiene, come ha fatto ieri, i tassi di interesse invariati allo 0,75% mentre l’euro tocca il massimo da 14 mesi sul dollaro, inevitabilmente non si fa degli amici nell’euro-sud che boccheggia nella morsa della recessione e della disoccupazione e continua a non vedere la luce della crescita in fondo al tunnel.
Inevitabilmente finisce anche per portare acqua al mulino della crociata di François Hollande contro l’euro forte, contro l’indipendenza della Bce nella fissazione del tasso di cambio. E contro la cultura tedesca della “super-moneta”. «Non possiamo chiedere ai nostri Paesi di fare enormi sforzi per recuperare competitività e poi annientarli con la rivalutazione incessante dell’euro» accusa il presidente francese. Ricordando che «in Europa ci sono Paesi con ampi surplus e grande competitività e altri con pesanti deficit che si sforzano di recuperarla. Per questo i primi dovrebbero stimolare la domanda per permettere ai secondi di tornare in attivo». Il messaggio a Francoforte e Berlino è chiarissimo.
«Non crediamo che la politica dei tassi di cambio sia lo strumento appropriato per rilanciare la competitività. Sarebbe uno stimolo a breve, non sostenibile» gli rispondono dalla cancelleria tedesca confermando la vecchia e tuttora insanabile contrapposizione culturale, prima che di interessi, tra i due Paesi leader dell’Unione.
Resta che l’euro forte non aiuta l’export che finora è stato l’unico motore dell’economia europea in frenata. Resta che quando nell’economia globale ci sono Stati Uniti e Giappone che cavalcano senza scrupoli la svalutazione competitiva di dollaro e yen, si moltiplicano difficoltà e pressioni sull’Europa prigioniera dei dogmi tedeschi. Tanto più se è vero, come è vero, che un apprezzamento del 10% dell’euro rispetto al paniere di monete dei maggiori partner commerciali si traduce nel primo anno in un calo del Pil dello 0,5%.
Come se già non bastasse questa saga di divisioni infinite e solidarietà negate, che alla lunga rischia mandare in pezzi l’Unione, il vertice Ue riunito ieri sera a Bruxelles non trovava di meglio che litigare sui tagli al bilancio pluriennale Ue (2014-20), fermo all’1% del Pil comune e per la prima volta in calo in termini reali. Che ridurre con l’accetta anche gli investimenti in ricerca, innovazione, reti e Galileo, cioè in alcune delle voci decisive per garantire la crescita del futuro.

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