Dopo i Mondiali di Calcio del 1990 e quelli di Nuoto del 2009, Roma non ha bisogno di un altro grande evento fallimentare. “Il nostro non è un attacco alle Olimpiadi ma a Roma 2020 e al modello di “governance “dei Grandi eventi” afferma in una nota una rete di organismi sociali che ha convocato una assemblea cittadina per la prossima settimana proprio per spiegare il loro No alle Olimpiadi a Roma 2020.
La Commissione di compatibilità economica, presieduta da Marco Fortis, afferma infatti che le Olimpiadi porterebbero a una crescita del Pil italiano dell’1,4%, ipotizzando un impegno economico per le casse pubbliche di 8,2 miliardi di euro, di cui 2,5 per l’organizzazione, 2,8 per le infrastrutture olimpiche e 2,8 per infrastrutture di trasporti, mobilità e progetti urbani.
La storia delle Olimpiadi a costo zero, però, non convince: degli 8,2 miliardi previsti per Roma 2020, infatti, l’unico project financing atteso è quello “del mattone” per il villaggio olimpico. Un business di 1,2 miliardi di euro che porterà alla cementificazione dell’area di Tor di Quinto. Per il resto, sarà il pubblico a metter mano al portafogli.
La spesa pubblica per Roma 2020 implicherà una riduzione della spesa in altri settori: ad essere tagliate temiamo saranno le spese meno efficienti in termini di moltiplicatore del reddito, alias i servizi ai cittadini. E guardando a quanto già avvenuto in passato in Europa, in Italia e a Roma non può che esplodere la rabbia: le Olimpiadi invernali di Torino del 2006 hanno lasciato la città sommersa da debiti, con un deficit di 28 milioni in capo al Comitato organizzatore. Le Olimpiadi di Atene 2004 hanno prodotto un buco di 20 miliardi di euro.
Venendo a Roma, come non ricordare opere come la ristrutturazione dello Stadio Olimpico per Italia ’90, costata 225 miliardi di lire a fronte di una previsione di 80, con un incremento dei costi del 181,3%. Anche allora a capo delle operazioni c’erano i vari Pescante, Carraro e Montezemolo. Nel 2009 Roma è stata scenario dello scandalo dei Mondiali di Nuoto: 54,7 milioni di euro il costo della manifestazione; 900 circa i milioni spesi in tutto; 16,8 il debito certificato in capo al Comitato promotore. E, ciliegina sulla torta, una grande opera – la Città dello Sport di Tor Vergata – ancora oggi in costruzione: 60 milioni di euro il costo iniziale, 200 i milioni già spesi, 500 quelli che da progetto Roma 2020 serviranno per completare l’opera in tempo per le Olimpiadi. Quando un Comitato organizzatore come quello di Roma 2020, poi, afferma che i giochi olimpici saranno “un acceleratore del Piano per lo Sviluppo Strategico 2010-2020” c’è solo da preoccuparsi. A Roma infatti per le Olimpiadi manca tutto anche se il Comitato dichiara che, su 42 impianti di gara, ben 33 sono esistenti. In realtà, nel conteggio ci sono dieci stadi di calcio (comprese le altre città: Milano, Torino, Napoli etc.), i due scheletri di Tor Vergata, sei padiglioni da allestire alla Fiera di Roma più un velodromo inesistente e, dulcis in fundo, il mare, il porto di Ostia, il laghetto dell’EUR e l’immarcescibile Piazza di Siena per l’equitazione. Il resto, sono i residuati delle Olimpiadi del 1960, tra cui il Palasport all’EUR e il Foro Italico (ma solo per il nuoto, perché il tennis finirà a Tor di Quinto, da realizzarsi nel 2018). Non si spiegherebbe neppure il beach volley al Circo Massimo e non sulla spiaggia di Ostia: ma si sa, i balneari vanno tutelati e in stagione estiva ogni mq di sabbia vale oro. Del resto Roma non ha mai avuto la cultura dello sport, visto che non ha neanche un Assessorato dedicato. Si resta dunque basiti dal fatto che sono già stati individuati anche i 105 impianti per gli allenamenti. Quali? Sicuramente quelli sorti per i Mondiali di Nuoto del 2009, tutti più o meno abusivi, che potranno così riscattare la propria immagine. Perché il problema delle Olimpiadi a Roma sarà proprio quello del non rispetto delle leggi urbanistiche. Basti pensare che a nord, il Parco Olimpico, del quale il nuovo Parco Fluviale del Tevere costituirà l’ossatura e l’elemento di connessione tra le sue diverse componenti, comprenderà l’area di Tor di Quinto con il Villaggio Olimpico da 18mila posti. Analogamente a Saxa Rubra, sorgerà il Villaggio Media, che ospiterà 5mila tra giornalisti e operatori televisivi. Entrambi, sul fiume, rispetteranno i vincoli imposti dall’Autorità del Bacino Fiume Tevere, tutelando l’ambiente fluviale? Fa sorridere dunque l’affermazione contenuta nel dossier che tutte le nuove costruzioni saranno ecocompatibili. Premesso poi che a livello sportivo di nuovo ci sarà soltanto il campo di canottaggio a Settebagni, sarà ecocompatibile anche il piano della ricettività che prevede nelle zone di Monte Mario e Prati di trasformare importanti caserme in alberghi? Per tutti questi fattori, non possiamo fare altro che aprire un dibattito in città – a partire dall’assemblea del 22 febbraio – sulla compatibilità economica, ambientale ed etica di Roma 2020. Un confronto non simbolico, urgente e finalizzato alla costituzione di uno strumento capace di opporsi alla folle logica del grande evento risolutore di una crisi economica connaturata ad un modello di sviluppo in grado di produrre solo consumo di suolo, profitti per pochi e devastazione del territorio.
Per cominciare a discutere di tutto questo, mercoledì 22 febbraio si terrà a Roma l’assemblea pubblica “Olimpiadi? No grazie”, un’iniziativa che si inserisce nella scia del percorso di Roma bene comune verso la costituzione di un coordinamento No Olympic games. All’assemblea parteciperanno l’avv. Pietro Mennea, recordman olimpionico e autore del libro “I Costi delle Olimpiadi,” movimenti per il diritto all’abitare, urbanisti, economisti, giornalisti, esponenti della società civile e delle forze politiche impegnate nel lavoro di vigilanza, inchiesta e denuncia sui grandi eventi e le grandi opere a loro connesse
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