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Cento colpi di spazzole e Cacciari

Anni passati a studiare la semanticità della musica (cioè se le note abbiano un significato altro rispetto a quello acustico) e i rapporti tra il free jazz e la politica. A giudicare da quanto comparso in rete e sui giornali negli scorsi giorni, anni spesi male. Bastava leggersi una ordinanza del Comune di Venezia, vecchia di una decina d’anni -imputabile alla giunta Cacciari, come puntigliosamente nota Mario Gamba sul Manifesto del 21 settembre scorso- per rendersi conto dell’inutilità degli sforzi.

Riassumo la vicenda ad uso dei marziani capitati in Italia per diporto. Venezia notoriamente soffre dei problemi legati ad un ecosistema delicato. Il turismo di massa ne rappresenta la fonte di sopravvivenza, pur comportando una serie di disagi legati alla quotidiana invasione di orde fameliche di monumenti, di ponti, di fotografie, di gondole. Sarebbe bello avere i soldi dei turisti, risparmiandosi gli effetti collaterali: la loro presenza fisica, il vociare rumoroso, i rifiuti, i venditori ambulanti…Alt. Da quando gli effetti collaterali con i bombardamenti americani sono politically correct e Maroni ha previsto super poteri a super sindaci, tutto questo si può risolvere.

Ci teniamo i turisti ma con una ordinanza ad hoc spazziamo via quanto non sembra lucroso. Via i lavavetri da Firenze, il divieto di nomadismo ad Assisi, no al rovistare nei cassonetti a Roma. Niente ideologia: i sindaci sceriffi di destra sono più creativi, quelli del centrosinistra più burocrati, ma la fabbrica delle ordinanze gira a pieno regime (sic!). Alcune ordinanze avrebbero mosso a invidia un poeta surrealista: non si possono scavare buche nella sabbia sulla spiaggia di Eraclea o indossare zoccoli a Capri. Queste ordinanze puzzano di visione classista: i colpiti sono i migranti, i barboni, i poveri, gli artisti da strada, i giovani. Il leghista Tosi di Verona ha ordinato che agli accattoni vengano sequestrati i beni e inflitta una multa: non gli rimane che distribuire latte più e aizzargli contro la banda di Arancia Meccanica.

In un paese che non riesce a mandare in galera i corrotti, a far pagare le tasse ai dentisti o a far rispettare una fila, i sindaci vorrebbero normare l’universo. Gobetti ci aveva avvertito: un po’ di fascismo ce lo portiamo nel dna; sommato a un aberrante conservatorismo straccione. Magari il vicino di casa dell’assessore di Forte dei Marmi deve fare la pennichella di sabato e spunta il veto dell’amministrazione: non si può usare il tagliaerba nei pomeriggi festivi. In uno stato dove il Presidente del Consiglio dispone di un corpus di leggi ad personam, perché negarsi una ordinanza sindacale? Il vanto occidentale della libertà individuale si sbriciola nel Lombardo-veneto leghista. Non si può mangiare il Kebab a Cittadella o giocare a cricket a Brescia. Peccato che oggi il kebab si faccia anche con la carne di fassone piemontese e che il cricket, oltre a pachistani e indiani poveri piaccia anche a inglesi, sudafricani, e australiani. Torniamo a Venezia, dove una summa di divieti colpisce i “poveri” rei di voler cogliere le briciole del turismo. Divieto di elemosina, accattonaggio, portare borsoni (quelli dei venditori ambulanti) e fare pic nic. Sia il turista spartano che la famigliola borsafrigo devono farsi rapinare in un bar di Piazza San Marco.

E anche per il problema di inquinamento acustico la giunta Cacciari si era attivata. Il cruccio è reale, la soluzione trovata all’epoca una grottesca “ordinanza creativa” che regolamentava i generi musicali ammissibili in città, tanto che oggi, dopo una rivolta del web che ha rinfocolato lo sdegno per quel vecchio provvedimento mai decaduto, l’attuale assessore Tiziana Agostini ha promesso dalle pagine del settimanale La Nuova di Venezia di correggere il pasticcio: “La malattia era reale – l’inquinamento acustico – la medicina avvelenata: stiamo riscrivendo la delibera cancellando le prescrizioni di tipo culturale, figurarsi se mi sogno di proibire una musica rispetto ad un’altra”. Quali erano dunque le musiche proibite? Il rock, che non viene nominato tra i generi ammessi, cancellando con un colpo di spugna cinquant’anni di storia. Invece sotto la voce jazz/dixieland, accettato in via teorica, si legge:“E’ escluso il jazz sperimentale, quale il free jazz, che essendo dissonante potrebbe essere di disturbo”.

Sovviene una delicata analogia: come ai padroni di cani si ricorda che è vietato calpestare le aiole e devono munirsi di apposita paletta per escrementi, i proprietari di sassofoni devono accertarsi che il suddetto, tenuto al guinzaglio, non valichi i limiti della musica tonale, disturbando il vicinato. Ma quale pirla non sa che il dixieland è morto da almeno sessant’anni? Che neanche una mummia stalinista come Breznev si sarebbe sognato di proibire il jazz con mezzi tanto perversi? Ma il Sindaco di Venezia non era quel Cacciari filosofo, mente pensante del Pd? Questo punto merita una riflessione specifica. Anche il suo collega di partito Veltroni parla di jazz. Una volta, più Kennedy del solito, fece un immondo paragone: il partito democratico è intenso e leggero come il jazz. Che sia intenso lo lascio agli estimatori, anche se personalmente trovo il concetto ardito per un partito dall’immobilismo conclamato. Leggero invece calza alla perfezione stante il continuo volteggiare delle opinioni che ne anima le correnti (d’aria).

Passiamo ad applicare i due aggettivi all’altro termine. Il jazz può essere intenso e leggero, ma anche spirituale, tragico, dolente, gioioso…La famosa ordinanza prescriveva per il jazz di essere soft! Veltroni e Cacciari si erano parlati? O uno dei due è stato il cattivo maestro dell’altro? Mario Gamba coadiuvato da musicisti attenti come Giovanni Maier, Piero Bittolo Bon e Claudio Cojaniz ha stigmatizzato l’ordinanza. Il parallelo immediato è con il bando alla musica degenerata voluto da Hitler nel 1938, che colpiva tanto il jazz “negroide” quanto la dodecafonia e altre forme espressive giudicate bolsceviche, giudaiche, depravate. Parallelo azzeccato anche per altri versi. In effetti gli zelanti esecutori dei gerarchi nazisti dopo la scomunica di Düsseldorf si diedero un gran daffare per vietare nelle esecuzioni dal vivo l’uso del sassofono, strumento “negro e degenerato” (nonostante fosse stato inventato da un Belga) che andava sostituito con il violino o il violoncello.

Pulizia etnica degli strumenti, attuata anche a Venezia: “i fiati sono presenti solo in qualità di solista e mai come sezione fiati (più fiati di accompagnamento)”. Un colpo di spugna contro lo swing? Un gesto di coraggioso revisionismo nei confronti di Duke Ellington o Benny Goodman, rei di avere troppi sassofoni e trombe in organico? Anche la batteria suscitava un sacro terrore alla Giunta Cacciari. Tutte quelle percussioni, quei clangori di piatti potevano turbare il sonno dei veneziani o la passeggiata dei turisti: “la batteria verrà suonata con le spazzole (spazzole di sottili fili di metallo per ottenere un suono attutito)”. La banalità del male: un aguzzino nazista proibisce i sassofoni e un sindaco perquisisce il batterista per assicurarsi che porti con sé solo le “spazzole”. Sul free jazz dissonante e disturbatore aprirei una parentesi.

L’analisi proposta da Gamba, Cojaniz e altri verte sul lato musicale. Temo che per interpretare correttamente la “dittatura estetica” voluta da Cacciari si dovrebbe ricorrere alla chiave psicoanalitica. Di fronte abbiamo un politico-filosofo e probabilmente nel suo inconscio hanno malamente lavorato rigurgiti di quel Platone che nella Repubblica condannava la musica, dannosa per i giovani, foriera di distrazioni. Nel suo regno ideale la musica doveva essere bandita per evitare il dominio del piacere e per mantenere quello della legge. Il capo della comunità protegge i concittadini come un padre, inflessibile nel mantenere la disciplina, nel difendere l’ordine, le leggi, i costumi e la morale. Casualmente sono punti forti nell’agenda della destra e forse travagli notturni per l’anima di un celebre ex sindaco barbuto. Certamente il free jazz, (termine che peraltro non identifica una musica di oggi, ma il movimento degli anni Sessanta) porta con sé implicazioni che invitano a sovvertire l’ordine musicale. Alcuni esponenti di questo genere negli anni Sessanta legarono le loro pratiche ai movimenti civili, alle fabbriche occupate, alla violenza razziale, al ripudio della guerra, alla violenza fascista, all’inumanità delle carceri.

L’ordinanza pare invece volta a preservare l’ignaro cittadino veneziano dalla possibilità di incontrare sulla propria strada una musica che non sia “pacificata” come il bene accetto “revival cover melodiche anni Sessanta”, che non si capisce cosa sia se non un bolso amarcord della giovinezza. Dario Borso aveva scritto un libello, Il giovane Cacciari (Stampa Alternativa, 1995) per stigmatizzare le intemperanze teoriche del nostro, qui non si osa tanto. Però una piccola lezione sulla democrazia dobbiamo trarla: pensavamo di avere un sindaco filosofo e avevamo Paolo Limiti.

Post Jazzum
Ho chiesto a Mario Gamba di mandarmi l’articolo citato da Franco Bergoglio. Lui me lo ha mandato e io lo ringrazio con questa citazione.

* da Nazione Indiana

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