<La vittoria del Viet Nam illumina il Primo Maggio. L’eroico popolo vietnamita ha sconfitto gli imperialisti e ha conquistato l’indipendenza> titolava a tutta pagina l’Unità del 1 Maggio 1975, il giorno successivo alla liberazione di Saigon da parte del FNL, quaranta anni fa. Sei anni dopo la scomparsa del padre del nord Viet Nam indipendente, il presidente Ho Chi Minh, il paese tornava unito e indipendente.
<Il 30 aprile del 1975 i carri armati comunisti entrarono a Saigon e la guerra più lunga finì> chiosava nei giorni scorsi Repubblica, nel proporre il ricordo dell’allora corrispondente dalla ex capitale sud vietnamita Bernardo Valli. Perché, si sa, i comunisti entrano sempre nelle città coi carri armati a “soffocare nel sangue la libertà e la democrazia”. Peccato per Repubblica che, quella volta, la vittoria sia stata conquistata in modo incruento, senza guerra civile, perché, come scriveva un anno dopo Nguyen Kach Vien, direttore della rivista Etudes Vietnamiennes, <il più grosso pericolo che sta di fronte a un potere rivoluzionario dopo la sua vittoria è evidentemente la guerra civile. Ma questa presuppone l’esistenza di classi sociali, di forze politiche capaci di mobilitare parti della popolazione. Nel sud Viet Nam attuale non ci sono più né feudatari, né proprietari fondiari, mandarini o notabili rurali. La borghesia compradora, interamente legata all’intervento americano, ha perso il suo sostegno principale>.
Con l’ingresso dei partigiani vietnamiti a Saigon – oggi Ho Chi Minh -, la fuga precipitosa dell’ambasciatore USA Graham Martin e degli esponenti vietnamiti più compromessi, con gli elicotteri che facevano la spola tra il tetto dell’ambasciata e le portaerei statunitensi, si celebrava una delle più importanti vittorie, se non la più importante, riportata da un popolo, guidato da un partito comunista, nei confronti della prima potenza imperialista mondiale. Gli Stati Uniti, sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, avevano dato man forte ai colonialisti francesi, insediatisi nella regione fin dalla metà del XIX secolo e nel 1954, dopo la sconfitta di questi a Dien Bien Phu, avevano preso il loro posto, intensificando poi via via la propria presenza economica e militare, soprattutto a partire dal 1962.
Una grande vittoria internazionalista, scriveva ancora l’Unità; <una vittoria della libertà, del diritto, della ragione. Il Viet Nam è divenuto ed è, certo, il simbolo di tutti i popoli in lotta contro l’oppressione e, più ancora, di quanti in ogni angolo del globo si battono contro l’ingiustizia e la prepotenza. La più grande potenza imperialistica ha profuso tutti i propri mezzi, il proprio oro, le proprie armi di sterminio, i propri sistemi di corruzione per dividere e piegare quel paese. Ma è stata sconfitta. E’ una data storica, e lo è in primo luogo per tutte le forze democratiche, di pace, antimperialiste le quali per decenni si sono battute a fianco del Vietnam. Ed è la conferma di come un determinato clima politico generale, un’azione unitaria e di massa dei popoli per la pace possa favorire il successo delle lotte per l’indipendenza, possa aiutare il riscatto nazionale dei paesi che vogliono esser liberi di scegliere il proprio destino>.
Probabilmente non scriverebbe le stesse cose oggi l’Unità; non lo farebbe in ogni caso, anche se fosse ancora in edicola e la sua fede nel corso revisionista, prima e nella democristianizzazione europeista, dopo, non fosse stata ripagata con gli interessi. Ma la fine di quel giornale ha sicuramente molto a che vedere anche con la carenza, oggi, di quelle condizioni che avevano permesso di giungere alla data storica del 30 aprile 1975.
E le condizioni erano date dal fatto che, per dirla con quanto scritto nel 1966 da uno dei maggiori e diretti protagonisti di quella lotta, il generale Vo Nguyen Giap, <La rivoluzione vietnamita è parte integrale della rivoluzione mondiale. Dalla fine della seconda guerra mondiale il rapporto di forze tra la rivoluzione e la controrivoluzione su scala internazionale è mutato profondamente. Il sistema socialista mondiale si è consolidato e si sviluppa. I paesi socialisti sostengono unanimemente il nostro popolo. Il movimento di liberazione nazionale ribolle sui continenti dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, assestando potenti colpi all’imperialismo mondiale, il cui capofila è l’imperialismo americano, e provocando l’affossamento del vecchio sistema coloniale su vasta scala. Durante gli ultimi vent’anni, più di cinquanta paesi, con un totale complessivo di un miliardo di abitanti, hanno conquistato un’indipendenza politica di gradi diversi. La lotta rivoluzionaria di liberazione nazionale sta modificando direttamente il rapporto di forze tra il campo socialista e quello imperialista, fa vacillare le retrovie dell’imperialismo>.
Per quanto sia tuttora necessario e importante riflettere sulle vie di quello “sviluppo del sistema socialista mondiale”, di cui parlava Giap 50 anni fa, è un fatto che l’esistenza di quel sistema costituisse allora uno dei fattori principali della situazione mondiale, di cui l’imperialismo era costretto a tener conto. Questa era una delle condizioni che avrebbero permesso ai combattenti vietnamiti di giungere alla vittoria dell’aprile 1975 sulle <forze reazionarie indigene, in primo luogo la borghesia compradora e la classe dei proprietari terrieri>, indicati da Giap quali alleati collusi, e al tempo stesso strumenti, della dominazione coniale francese, prima e neocoloniale americana, dopo, nel sud Viet Nam.
La dominazione americana nel sud del paese si distingueva sensibilmente dalla secolare oppressione francese sull’intero Viet Nam, terminata con la clamorosa vittoria vietnamita di Dien Bien Phu – tra i cui fattori principali, lo stesso Giap sottolineava la riforma agraria sostenuta dal Partito comunista, che aveva assicurato l’appoggio delle masse contadine – e la divisione della nazione lungo il 17° parallelo. Gli americani sostituivano i vecchi governatori e funzionari stranieri dell’epoca coloniale, con esponenti reazionari locali (il dittatore Diem, finché non fu assassinato con il beneplacito statunitense e rimpiazzato con Van Thieu) garantendo così la formale indipendenza nazionale, ma assicurandosi la supremazia economica e finanziaria e dettando le linee di politica estera e militare. “Se si confronta la strategia coloniale di vecchio tipo con quella neocoloniale della metà del XX secolo” scriveva nel 1982 la rivista Etudes Vietnamiennes, vediamo che “l’era della supremazia politica e ideologica assoluta del sistema imperialista-capitalista è tramontata. Esso si trova piuttosto in condizioni di inferiorità. Per contro, sul piano materiale, tecnico, finanziario, l’imperialismo attuale dispone di mezzi ben più consistenti che non 50 anni fa. Si può dire che il neocolonialismo sia una strategia che si è sviluppata in una posizione di inferiorità politica e ideologica, ma di potenza materiale accresciuta. I paesi dipendenti costituiscono per le potenze imperialiste una autentica “banlieue”, una periferia in cui sono concentrate le attività poco qualificate che esigono una mano d’opera numerosa e industrie inquinanti. Il centro fornisce l’impulso tecnologico, gli investimenti, la direzione finanziaria e raccoglie i principali benefici”.
Ma l’assalto americano al sudest asiatico, oltre gli aspetti neocoloniali, di penetrazione economica e invasione culturale, ha avuto soprattutto carattere di aperta guerra d’aggressione: il più cruento, il più massiccio, il più distruttivo e il più prolungato intervento bellico USA dopo la seconda guerra mondiale. Dalla “guerra speciale” – con l’urbanizzazione forzata di 10 milioni di contadini e la creazione dei cosiddetti “villaggi speciali” – fatta combattere dalle truppe fantoccio sudvietnamite contro i partigiani del Vietcong; alla “guerra locale”, che arrivò a impegnare quasi 700.000 militari statunitensi; al progressivo ritiro delle truppe USA e i sempre più forti e spietati bombardamenti dei B52 sulle campagne del sud e sulle città del nord Viet Nam e su Laos e Cambogia. A quella guerra d’aggressione, in cui le truppe di terra americane si abbandonavano quasi quotidianamente a pratiche degne delle più malvagie stragi naziste (prigionieri torturati a morte, affogati o gettati dagli elicotteri; civili feriti e finiti a colpi di baionetta; interi villaggi incendiati e rasi al suolo a colpi di mortaio, insieme ai loro abitanti, di cui restavano solo pezzi di carne; massacri in massa di bambini, donne e vecchi: valga per tutte, la strage di Son my) gli strati popolari e il partito comunista seppero contrapporre una resistenza che, sostenuta dalla stragrande maggioranza della popolazione, sfociò infine nella completa vittoria. “La resistenza popolare al regime americano-diemista ha seguito così il processo classico della guerra di popolo: è iniziata nei primi cinque anni come una lotta politica di massa multiforme e articolata; a poco a poco dalle masse popolari sono poi sorti gruppi armati di autodifesa che sono cresciuti fino a costituire i primi nuclei di un esercito autenticamente popolare” scriveva nel 1966 Nguyen Khac Vien a proposito della resistenza nel sud Viet Nam.
Una resistenza popolare in grado di assestare colpi sempre più duri all’esercito statunitense (in quel tempo ancora formato in gran parte di giovani di leva), tanto da far decidere Washington al graduale disimpegno terrestre e al corrispondente incremento dell’aggressione aeronavale. Le incursioni aeree americane – 15 milioni di tonnellate di bombe, tra la presidenza Kennedy e quella di Nixon – sull’intero territorio del Viet Nam, tra bombardamenti a tappeto e in picchiata, uso di napalm e defolianti furono quattro volte superiori a quelle della seconda guerra mondiale. Ma i combattenti vietnamiti impararono presto a rispondere ai piloti USA. Ne sa qualcosa uno degli attuali padrini dei golpisti di Kiev, il senatore John McCain, all’epoca aviatore di marina, abbattuto su Hanoi nel 1967 e rimasto prigioniero fino al 1973. A dispetto delle interessate biografie – il suo passo sicuro dei fotogrammi vietnamiti al momento della liberazione, ad Hanoi, lascia il posto a due solide stampelle nelle videoriprese USA, al suo arrivo nelle Filippine, a “dimostrazione” in Occidente della malvagità dei suoi carcerieri comunisti – lui e tanti altri piloti americani detenuti nel carcere di Hoa Lo venivano nutriti quotidianamente con pasti abbondanti, recapitati alla prigione di notte, affinché la popolazione vietnamita, che in quel periodo faceva la fame, non sapesse come se la passassero gli aviatori statunitensi nelle celle di quello che era chiamato lo “Hanoi Hilton”.
Ma, tra le condizioni che resero possibile la vittoria del 1975, insieme alla lotta di popolo, all’orientamento su una “guerra di lunga durata” – la sola tattica giusta nelle condizioni di enorme disparità di mezzi tra aggressore e aggredito – al sostegno politico, materiale e militare dei paesi socialisti, una parte significativa fu rappresentata anche dalle larghe mobilitazioni di massa internazionali (anche negli Stati Uniti) a sostegno della resistenza vietnamita e contro l’intervento nordamericano. In quegli anni, quando la solidarietà non semplicemente pacifista univa i popoli, anche al di là degli appelli, a volte solo formali, lanciati da una sinistra via via sempre più dimentica dell’internazionalismo, l’appoggio alla lotta del popolo vietnamita e al Viet Nam del nord socialista costituiva anche la manifestazione cosciente della necessità di contrastare sempre e ovunque l’imperialismo USA. In quegli anni, la lotta del Viet Nam era sentita come la punta di lancia della lotta generale dei popoli contro il capitalismo e l’imperialismo. La vittoria del Viet Nam fu sentita come la vittoria non solo del popolo vietnamita.
E in tale vittoria, un ruolo di primissimo piano fu rappresentato dal fattore “soggettivo”: dal Partito comunista del Viet Nam e dai suoi leader, a partire dal primo Presidente della Repubblica socialista del Viet Nam, Ho Chi Minh che, forti dell’esperienza e della preparazione della scuola dell’Internazionale comunista, erano riusciti a mobilitare concretamente su obiettivi locali e nazionali di massa, antireazionari e antiimperialisti, vasti strati di popolazione, avviandosi lungo l’indispensabile percorso della guerra di popolo, in grado di opporsi e di sconfiggere l’aggressione di una tale potenza finanziaria, economica e militare. E lo strumento fondamentale era stato il Partito comunista che, come scriveva ancora Giap, aveva saputo <esaltare l’eroismo rivoluzionario, rafforzare la determinazione a combattere e a vincere, creare la più grande forza politico-morale in grado di vincere il nemico, realizzare a ogni costo gli obiettivi posti per ogni periodo e gli scopi della rivoluzione. Il nostro partito si è sempre assegnato come punto primario quello di infondere nelle masse la propria linea generale e gli obiettivi rivoluzionari, lo scopo politico della guerra, di realizzare senza sosta la mobilitazione politica tra le masse, di rafforzare il fattore politico-morale della guerra rivoluzionaria. In guerra, la potenza politico-morale è data innanzitutto dalla linea rivoluzionaria, dallo scopo politico della guerra>.
E’ così che, con buona pace di Repubblica, i “carri armati comunisti”, le batterie antiaeree, i fucili d’assalto, avevano già vinto prima ancora di liberare Saigon.
Fonti:
Nguyen Khac Vien “Sud-Vietnam au fil des années”. Éditions en langues Étrangères; Hanoi 1984
Vo Nguyen Giap “Écrits”. Hanoi 1977
“Il Vietnam vincerà” a cura di Enrica Collotti Pischel; Einaudi 1968
“Le néo-colonialisme américain au sud-Vietnam. Aspects socio-culturels” – Etudes Vietnamiennes, n.69 del 1982
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