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“Israele-Palestina, alla radice del conflitto”. Intervista a Joseph Halevi

Ormai più di un anno fa, subito dopo l’offensiva israeliana su Gaza, abbiamo realizzato un’intervista a Joseph Halevi (docente presso la University of Sydney). L’intervista è rimasta inedita fino ad oggi, ma è ancora molto attuale. Abbiamo deciso quindi di pubblicarla oggi (15 Maggio) in occasione dell’anniversario della Nakba.

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Vincenzo Maccarrone: il recente conflitto di Gaza è stato l’ennesimo episodio nel lungo conflitto fra Israele e il popolo palestinese. Se volessimo risalire alle radici di questa violenza, dove dovremmo scavare? 

Joseph Halevi: come dinamica iniziale dovremmo partire già dall’inizio dell’insediamento colonizzatore, non tanto quando arrivarono i primi ebrei a fine ‘800 –  in quel caso si trattava di attività private, auto-finanziate – ma da quando iniziò, se vogliamo dare una data, la fondazione della città di Tel Aviv nel 1909. Tel Aviv sorge sulle rovine di sei villaggi arabi. Cosa era successo? Coloro che sostenevano la colonizzazione, in questo caso già colonizzazione sionista, compravano le terre presso proprietari terrieri arabi, che erano in gran parte feudatari assenteisti (la maggior parte stava a Beirut) e poi, con il fido di proprietà, sfrattavano i contadini che lavoravano su quelle terre. E questo è un atto di violenza: usavano il titolo di proprietà come titolo di sfratto, rompendo sostanzialmente quelle leggi consuetudinarie- quasi nulla era codificato, essendo quello ottomano un sistema semi-feudale- per cui i fellahin (contadini) arabi vivevano lì. È simile al processo delle enclosures inglesi.
All’inizio non c’erano grandi reazioni a questi sfratti, al massimo avvenivano dei tafferugli. Successivamente ci furono anche scontri più gravi, nel senso che ad esempio a Hebron ci furono esecrabili uccisioni di ebrei.
È da notare che il processo venne sostenuto dall’autorità britannica- quando la Palestina diventò parte del mandato britannico. 
Negli anni ’30 avvennero fatti ancora più gravi. Nel 1936 cominciò in Siria una grande rivolta anti-francese, che portò alla sua indipendenza nel 1940 e alla separazione del Libano dalla Siria (per via del fatto che in Libano c’era allora una maggioranza cristiana). Questo movimento nazionalista e anticoloniale si propagò in Palestina, dove ci furono 3 anni di rivolta forte, gli inglesi in risposta bombardarono quella che chiamiamo West Bank.
La debolezza dei palestinesi nei confronti degli inglesi permise ai sionisti, che appoggiavano gli inglesi in maniera non violenta, di conquistare posizioni di potere. 

VM: Ma quindi già negli anni ’30 c’erano delle persone che si autodefinivano ‘palestinesi’? 

JH:  secondo Edward Said nel suo libro “The Question of Palestine” si può parlare di palestinesi addirittura all’inizio del ‘900. Io su questo ho i miei dubbi, c’è però il grande storico israeliano Yehoshua Porath, che nel suo “The emergence of the Palestinian-Arab national movement, 1918-1929” scrisse sul movimento di liberazione nazionale palestinese, e lo data dagli anni ’20 in poi. È un libro molto importante, fondamentale. 

VM: questo è importante soprattutto per quello che succede dopo, poter dire che c’era già una popolazione palestinese. 

JH: non so se si possa parlare di “popolazione” palestinese, certamente la popolazione aveva già capito dalla metà degli anni ’20 in poi che c’era un processo di espulsione in atto. Lo capirono subito e reagirono con jacquerie – perché il problema palestinese era che la dirigenza politica prima non era unificata, e quando c’era dipendeva da elementi feudali arabi, di stanza o a Beirut o in Egitto, o da elementi religiosi, dal muftì, che era l’espressione massima della feudalità politica della zona.
Quindi difficile dire che ci fosse nella popolazione una consapevolezza nazionale, ma certamente c’era politicamente un movimento anticoloniale. 
Nel trentesimo anniversario della grande rivolta palestinese del ’36- che poi era quella siriana che si era estesa sulla Palestina, il giornale Haaretz fece un numero speciale per commemorare questo anniversario, perché definirono quella rivolta come l’elemento fondatore dello stato di Israele. Per Haaretz, la possibilità di fondare uno stato di Israele emerse quella volta, con lo scontro fra Inglesi e Palestinesi,  la sconfitta, il vuoto politico e l’indebolimento dei palestinesi. 
Il risultato strategico del fallimento della rivolta palestinese nel ’36 fu duplice. Primo: la componente ebraica, che allora era una sorta di stato nello stato, si impossessò del porto di Haifa.
In quel porto- costruito mi sembra agli inizi degli anni ’30 per ricevere dagli inglesi il petrolio dalla Siria e dall’Iraq – ci fu uno sciopero generale che durò per mesi.
Gli operai erano quasi tutti palestinesi o comunque arabi. Gli inglesi non sapevano come gestire questa situazione, perché bloccava questo snodo fondamentale. La dirigenza sionista della parte ebraica propose una soluzione: voi licenziate, noi organizziamo l’emigrazione da Salonicco- città con una grossa percentuale di classe operaia ebraica (mentre ce n’era poca in Palestina, dove era difficile trovare operai ebrei che non fossero nel tessile, polacchi di origine). Organizzarono così l’emigrazione di portuali ebrei, per rimpiazzare i lavoratori arabi che quindi gli inglesi poterono licenziare, e il porto passò sotto il controllo delle autorità ebraiche.
Secondo: gli inglesi dopo la rivolta capirono che il problema si sarebbe allargato: costituirono la “Commissione Peel” che si riunì nel ’37, proponendo un piano di spartizione del territorio palestinese per la costituzione due stati. 
Quindi per me la violenza comincia ben prima della Nakba, che peraltro comincia nel 1947 e non ’48. Comincia nel ’47 dopo la risoluzione ONU che prevede la costituzione dei due stati: sin da subito comincia una battaglia per il controllo delle strade, ed in queste fase iniziano le espulsioni dei palestinesi, già nel Novembre-Dicembre del ’47. 

VM: queste espulsioni sono state riconosciute anche da storici israeliani? 

JH: ci sono degli storici, i cosiddetti “nuovi storici”, che rompono con la versione ufficiale, che è ambigua, in quanto presenta l’espulsione in parte come esodo volontario dei palestinesi basato sull’ipotesi che gli eserciti arabi avrebbero vinto e che quindi comunque essi sarebbero potuti rientrare successivamente sulle loro terre. A questa versione ora non crede più nessuno, ma fino all’inizio degli anni ’70 in tanti raccontavano questa versione, ricordo che anche mio padre me la diceva. Per sostanziare questa tesi si raccontava anche che le radio arabe incitassero gli abitanti arabi a lasciare le loro case, in cui sarebbero tornati vincitori. Quest’ultimo aspetto è falso, uno storico americano, Howard Zachar, che peraltro ha scritto un libro di testo pro-israeliano ( “A History of Israel), ma come personaggio è onesto, non ha trovato alcuna prova di appelli a lasciare la Palestina.
C’è anche un’altra tesi, cioè che le espulsioni fossero fatti di battaglia: nella guerra – causata dall’invasione delle armate arabe -la gente aveva lasciato i posti dove vi erano  conflitti. Ma anche questo è inesatto, perché molte di queste cose sono successe dove non c’era fronte, dove non c’erano eserciti arabi.  Gran parte degli eserciti arabi avanzano solo dove non trovavano resistenza, pochissimi sono entrati nel territorio assegnato ad Israele dall’Onu, entravano nei territori palestinesi. La Siria fu l’unica a riuscire ad occupare una parte del territorio assegnato ad Israele, nel Nord. 
Nessuno oggi nega la Nakba, al massimo quelli che non vogliono prendesi la responsabilità storica ti dicono che è il risultato del conflitto, della guerra. 

VM: quanto è importante la componente “religiosa” di Israele nel determinarne le scelte politiche? 

JH: È una domanda interessante, ma complicata. Ci sono vari livelli.
Il movimento sionista storicamente è un movimento prevalentemente non religioso, addirittura prevalentemente ateo, anche nella componente nazionalista.
I sionisti avevano una componente socialista e una laica di destra, nazionalista.
C’è però un libro di Zeev Sternhell – “Nationalism, Socialism, and the Making of the Jewish State”- tradotto anche in italiano[1]. È uno storico che si è specializzato sulla destra europea. Ha scritto un bel libro su quello che lui chiama il “socialismo nazionale” israeliano.
Lui mostra molto bene che è vero che i sionisti erano a-religiosi, però per poter dare una visione compiuta di ciò che è il popolo ebraico – perché nessuno sapeva esattamente cos’era il popolo ebraico – e alla sua unità nazionale, essi hanno dovuto ricorrere a elementi religiosi, come elementi di identificazione. La religione quindi nel senso della tradizione, della storia. 

VM: mi viene in mente Gramsci con la sua teorizzazione dell’egemonia e del senso comune (in cui include anche la religione). Chi controlla il senso comune diviene egemonico 

JH: esatto, hanno fatto questa operazione.
Sternhell mostra molto bene questo fatto: quando si è formato lo stato di Israele, i sionisti introdussero elementi fondamentalisti: i matrimoni misti erano difficili, i matrimoni civili erano difficili, addirittura molta gente andava – penso vada ancora- a Cipro per sposarsi.  Difficoltà gigantesche soprattutto nel campo matrimoniale, un aspetto molto importante.
Benché Ben Gurion, del partito social democratico israeliano, ottenesse maggioranze bulgare, ha sempre incluso nelle maggioranze di governo il partito religioso, come elemento di garanzia: un partito religioso che riconoscesse la validità dello stato di Israele. Bisogna infatti tenere conto del fatto che i religiosi ultraortodossi non erano favorevoli allo stato di Israele. 

VM: Perché? 

JH: perché il concetto di Israele è un concetto puramente metafisico, spirituale. Quindi i religiosi veri non lo guardavano con interesse. C’era però un partito sionista religioso, si chiamava Partito Religioso Nazionale, che appunto Ben Gurion incluse sempre nelle sue coalizioni, e a cui fece delle concessioni. Il partito gestiva tutta la struttura delle religioni esistenti in Israele, quindi i rapporti con i musulmani e i cristiani. Era un partito molto clientelare, tant’è che riceveva molti voti anche da arabi. Questa è la fase “laica” di Israele, dove però c’erano elementi come quelli che ho richiamato sopra.
Quando andò la Destra al potere, dopo la guerra del ’67, si svilupparono nazionalismo e misticismo.  Misticismo perché nella zona della Cisgiordania c’è Gerusalemme orientale, dove ci sarebbero le fondamenta del Tempio, che però nessuno ha trovato. C’è il Muro del Pianto, ecc. Quindi c’è questo misticismo nazionale e nazionalistico. Ci sono anche le tombe delle madri di Israele.
Incominciò allora l’integrazione di una religiosità fanatica dentro l’idea di espansione coloniale. Cominciò ancora con i laburisti, con Golda Meir, ma soltanto fino ad un certo punto. Con la Destra (Begin, ecc) questa integrazione divenne più ampia.
La destra israeliana non viene da una destra liberale, ma da una destra fascista. Il loro modello di riferimento era il partito fascista italiano. Questa destra, a sua volta non religiosa, diede comunque avvio a queste cose, integrando l’elemento religioso nel loro nazionalismo. Diedero spazio a elementi religiosi nell’esercito. L’esercito israeliano era essenzialmente intellettuale e tecnocratico, ma da quando la destra domina la scena politica è diventato un ricettacolo di elementi fondamentalisti e religiosi. Allo stesso tempo esentano i religiosi che fanno parte delle scuole religiose dal servizio militare e dalla tasse. 

VM: questo crea problemi ad Israele perché gli appartenenti alle componenti religiose ultraconservatrici (i c.d. Haredim) a livello demografico crescono molto, e questo potrebbe essere un problema dato che “sbilancia” la società con una quota sempre crescente di persone che non lavorano e non fanno il servizio militare. 

JH: sì questo è un problema serio. In realtà, se non ci fosse l’elemento di conflitto coi Palestinesi, che diventa un elemento ideologicamente esistenziale, Israele sarebbe dilaniata completamente. Basti pensare che oggi c’è un solo partito nazionale, cioè che si riferisca a tutta la popolazione israeliana, ossia il Fronte Democratico della Pace, del Partito Comunista. Gli altri sono tutti settari, nel senso etimologico del termine: se sono laburisti, o come il Likud, il loro riferimento è la popolazione ebraica, non perché sia maggioritaria ma perché loro sono per il rafforzamento dello stato ebraico; poi c’è il partito che riceve prevalentemente voti dai russi, o dalla componente religiosa.
Questo accade anche nella componente arabo-palestinese, e questo è un elemento che sta indebolendo il fronte del partito comunista, che aveva percentuali altissime fra la componente arabo-palestinese. Nella stessa popolazione arabo-palestinese di Israele si stanno sviluppando infatti forze locali, non nazionali. 

VM: la grande dicotomia per la soluzione al conflitto israelo-palestinese è sempre quella: due popoli in due stati o due popoli in uno stato. Secondo te, se si volesse provare a risolvere la questione, qual è la soluzione più praticabile? 

JH: io direi che ci sono due questioni. La prima è che la soluzione dei due stati mi sembra difficile, perché Israele ha già integrato tutto.
In realtà in Israele ci sono 3 livelli: il livello ebraico, una popolazione con pieni diritti, un livello intermedio, quello dei palestinesi con cittadinanza israeliana, che a livello teorico hanno pieni diritti ma sono in qualche modo discriminati. E il terzo livello in cui ci sono i palestinesi, che non fanno parte dello stato di Israele ma sono stati occupati di Israele, che non hanno alcun diritto. Israele ha integrato tutto questo, questa è la base materiale, bisogna capirla. Se uno prende il West Bank, la Cisgiordania è divisa in una miriade di spicchi per via degli insediamenti. 

VM: i “Bantustan” di cui parlava Edward Said 

JH: sì, ci sono strade dove i Palestinesi non possono andare, le strade che collegano gli insediamenti, in cui tra l’altro i palestinesi israeliani non possono andare a vivere perché sono gestiti dall’agenzia ebraica che per statuto opera solo per gli ebrei.
Quindi, da questa situazione uno stato non può emergere, non c’è la base materiale. 
Questa è la situazione reale. Però, se uno comincia a dire “facciamo uno stato solo”, significa non abolire l’occupazione. Non si può parlare di fare uno solo stato democratico per tutti se prima non cessa l’occupazione e l’esercito non si ritira da tutta la West Bank, compresa la Valle del Giordano da cui non vogliono ritirarsi, e devono smantellare gran parte degli insediamenti.
Nel momento in cui questo accade significa che è l’autorità palestinese a doversi prendere la responsabilità di quella zona, quindi devi per forza passare nella dialettica dei due stati.
Questa è la contraddizione fondamentale del processo.
Comunque Israele non ha nessuna intenzione di risolvere la faccenda, perché per Israele questo non è un grosso problema. È un problema a livello internazionale ma non per Israele. Sono pronti a perpetrare questa situazione, lo dimostra il fatto che recentemente vi siano stati altri insediamenti.
Ha ragione Noam Chomsky a dire che il cambiamento può avvenire solo se lo decidono gli Stati Uniti.
Se gli Usa mettono fine al finanziamento degli armamenti che permettono ad Israele di mantenere un esercito enorme, allora Israele dovrebbe cambiare rotta.


[1]      Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Milano, Baldini&Castoldi, 1999.

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