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«Mad Max – Fury Road». Punk’s not dead

Fuori dal tempo, dalla teoria dei generi cinematografici e letterari, al di là di ogni compromesso e forse pure del bene e del male. Il ritorno di George Miller alla creatura che lo fece grande arriva dopo decenni passati tra maialini parlanti e pinguini simpaticoni. Insomma, «Mad Max – Fury Road» è un film enorme, e usciti dalla sala dopo due densissime ore passate a correre all’impazzata su una «turbocisterna», si capisce perché questo film abbia raccolto ovazioni dalla di solito spocchiosetta critica di Cannes e abbia esordito su Rotten Tomatoes con il 100 percento di recensioni positive.
C’è tutto, in questo film: un’esperienza visiva incredibile, roba da far impallidire il Christopher Nolan di Interstellar, uno stile nella regia che pare avanguardia pura, una fotografia ‘retrofuturista’ che riprende il vecchio stilema (tra l’altro creato proprio da Miller) del futuro post apocalittico tutto benzina e polvere al vento.
E una sceneggiatura che potrebbe averla scritta Cormac McCarthy, tanto riesce ad essere essenziale nella trama ma perfettamente lineare nel suo sviluppo. Su «Mad Max – Fury Road» si è scritto di tutto, si è giustamente tirato in ballo il western, lo steampunk, i videogiochi, l’immaginario collettivo sulla fine del mondo, la paura di un domani catastrofico, la fine dei giorni e l’alba di un giorno dopo violento e cattivissimo. Ok, è tutto questo, ma è anche molto di più.
Miller è fondamentalmente un punk: avrebbe potuto adagiarsi su un rifacimento dello storico secondo capitolo della saga, invece lui è andato oltre, ridisegnando i confini di un genere stretto tra le etichette ingombranti della fantascienza e del cinema di azione. Adesso chiunque vorrà occuparsi di questi temi dovrà fare i conti con questo lavoro, e non sarà un’impresa facile. Perfetta la scelta degli attori: Tom Hardy è intenso nel suo mutismo (tipo: dieci battute in tutto il film?), Charlize Theron è un’eroina di una potenza che non si vedeva dai tempi di Alien, il giovane Nicholas Hoult (Do you remember ‘About a Boy’?) stupisce. Persino la vecchia gloria della pubblicità della Vodafone (ai tempi, Omnitel) Megan Gale fa un figurone. Il livello della messa in scena, insomma, rasenta la perfezione: superato da Spielberg negli anni ’80, Miller ha aspettato il 2015 per tornare a prendersi quello che è suo. Poi c’è da valutare tutto l’aspetto politico: il mondo ridotto a tribù governate da capi brutali e senza pietà, gente che detiene il monopolio delle risorse energetiche e naturali e tiene sotto scacco un popolo che, come da tradizione, vive in basso, in mezzo al fango e alla polvere, mentre chi può ha il suo posto al sole. I soldati deformi e kamikaze, completamente soggiogati in un eterno rimpallo di sensi di colpa e venerazione mistica. La speranza, l’unico futuro che si intuisce, è una società matriarcale, a ribaltare i ruoli e ogni ordine costituito sopra le macerie di una civiltà scoppiata per motivi non dichiarati ma intuibili. I dialoghi del film sono scarni, poche parole per esprimere concetti semplici. E qui il valore letterario dell’opera si alza, è una metafora: nel mondo senza più ordine e senza più società, le parole non servono quasi più. Va detto che questi tempi si prestano particolarmente al ritorno di «Mad Max»: negli anni ’70, dai deserti dell’Australia, venne fuori questo affresco apocalittico mentre il mondo, là fuori, era preda degli incubi, tra crisi petrolifere e guerra fredda. Oggi la situazione è per molti versi simile, e allora tornare a tuffarsi in quel mondo, insomma, viene quasi naturale. È una questione di immaginario, collettivo e personale. È il punk che va al cinema, tra coreografie (le scene degli inseguimenti con tanto di trampolieri, chitarristi metal e gente che si ammazza gridando «Valhalla!» o «Ammiratemi!») e un filo di malinconia per un universo in cui si può sopravvivere ma non ci si può mai salvare del tutto, «Mad Max – Fury Road» irrompe nel cinema contemporaneo e ne sposta i confini più in là, com’era accaduto già trentacinque anni fa, quando Interceptor si affermò come fenomeno culturale prima ancora che cinematografico. Non deve stupire – ma se ne parla, appunto, da decenni – che tutto questo sia nato in Australia: l’isola dei deportati, ai confini del mondo, la terra dei canguri di cui fondamentalmente poco si sa e molto si immagina, spesso sbagliando. Gli americani fanno film catastrofici sempre più mediocri, gli australiani corrono nel deserto tra punkettoni e rombi di motore: già il primo quarto d’ora di questo «Mad Max» vale il prezzo del biglietto: botte da orbi, incidenti automobilistici, esplosioni, l’eroe solitario che viene fatto prigioniero. Sono pazzi questi australiani.

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