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Artaud Lo spettacolo non può essere non politico

Comincerei a ricordare così Antonin Artaud, perché non può essere questo il modo di ricordare il più grande rivoluzionario del teatro del ‘900. Artaud non ha fatto solo la storia del teatro, non ha creato solo l’avanguardia; esso è riuscito a interpretare le forze sociali del suo tempo e trasformarle in energia nuova, nello spettacolo crudele del sangue che aveva visto della prima guerra mondiale e avvertendo le vibrazioni della seconda.

Parlando di Artaud probabilmente entriamo nel campo del “poeta veggente” di cui parlava Rimbaud in una sua famosissima lettera: ovvero la veggenza tramite la dissoluzione, tramite il delirio di tutti i sensi; l’analisi divenne scoperta dell’inconscio collettivo, spirituale, lo spettacolo teatrale diventa totale, crudele, una festa che fa crescere sia lo spettatore che l’attore.

L’obbiettivo è distruggere il teatro di rappresentazione, l’obbiettivo è distruggere la lirica per arrivare probabilmente all’essenza di ogni arte: astrazione. Il non presente che racconta Artaud è stato rivoluzionario, ma oggi lo vediamo trasformato in forma cristallizzata, in istituzione, in ricerca priva del contenuto.

Quel che riuscì a fare Artaud non è stato ancora ben compreso: anche perché, in fondo, la sua bellezza sta proprio nel tentativo di mettere in pratica il suo pensiero.

Caso curioso, anche Artaud, nel suo modo di esprimere un teatro rivoluzionario (avrei potuto dire teatro come avrei potuto dire vita, scriverà ad un amico), è stato tacciato di utopia.

Nelle accademie tutti i pensieri rivoluzionari della storia vengono trasformati in utopia: Rousseau, Marx e Artaud fanno parte di quei folli che hanno tentato di mettere in pratica le proprie idee, i propri sentimenti, ma che hanno sempre cambiato la storia.

Oggi vediamo troppa utopia, e allo stesso tempo troppo poca. Credo che in fondo ci sia un’utopia buona ed una cattiva (come Gramsci diceva esistesse un populismo buono ed uno cattivo): c’è chi vede nell’utopia l’insensatezza, e quindi avvicina l’asticella di questa parola così vicino al suo sguardo appannato da esserne ingabbiato, e preferisce voltare le spalle, e cercare nell’orticello delle sue possibilità la via di fuga; c’è invece chi vede nell’utopia un punto d’arrivo, il sogno che riesce ad innalzare e stimolare l’uomo fino a fargli realizzare prodigi mai nemmeno concepiti.

Artaud faceva naturalmente parte di questo secondo gruppo, come ne hanno fatto parte tutti i più grandi della storia. Non starò qui ad abbrutire il lettore elencando le sue scoperte, la fusione del vecchio col nuovo, l’interazione col pubblico, la visione del teatro balinese ecc. Voglio solo dire che il teatro di Artaud ha portato una scintilla d’irrazionalità, ed è bene ricordare che bisogna esplorare nuove forme, bisogna cambiare, fare qualcosa, modificare la propria realtà per poter uscire fuori dal proprio guscio di pensieri. Ci sono troppe monadi ripiegate in sé, ci sono troppe persone che nel buio del loro oleoso pozzo guardano le trasformazioni sociali con paura: questo negromante – la paura – è stato esorcizzato da Artaud, mostrando il bagno di sangue di cui l’uomo è nato, per questo il suo teatro si può definire “totale”.

 

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