Andato in scena a Napoli, al Teatro Trianon-Viviani “Teatro del Popolo”, Forcella Strit -scritto da Maurizio Braucci, per la regia di Abel Ferrara e liberamente ispirato a Our Town di Thornton Wilder- è uno spettacolo la cui peculiarità essenziale, direi quasi inequivocabile, è l’ autenticità. Rarissima qualità, in tempi di merce e teatro gastronomico, per parafrasare, ad uno, Neiwiller e Brecht.
E chiarisco che qui, con autentico, voglio intendere proprio quella necessità d’ispirazione, quella carnale vivacità espressiva, quella genuinità e semplicità linguistica –accuratamente ricercate da Maurizio Braucci, attraverso la sua affilata scrittura, fatta di parole quotidiane come il pane ed il vino, apparecchiate su una frugale mensa proletaria- che, pur in una certa disomogeneità formale, in qualche accento retorico, in un pervicace bisogno didattico, negli inevitabili difetti attoriali (si tratta pur sempre della chiusura di un percorso laboratoriale, tenuto da Abel Ferrara) e in una eterogeneità, a tratti esuberante, dei codici teatrali e dei riferimenti intertestuali, fanno, di questo allestimento, un “gioco” necessario e tremendamente serio.
Forcella Strit è, dunque, uno spettacolo popolare, nel senso più sincero e leale. Uno spettacolo anti borghese, incurante del formalismo estetizzante e del convenzionalismo stagnante di tanto teatro in voga. Divertente e tragico, patetico e vibrante, tenero e violento, magico e realistico. Uno spettacolo che “si fa” nel contesto in cui nasce: Forcella. Uno spettacolo di classe, secondo il più squisito valore marxiano.
Tra varietà, commedia, sceneggiata, melò, dramma realistico, straniamento brechtiano e psicodramma, Maurizio Braucci e Abel Ferrara, con il supporto delle allegoriche e allusive scenografie di Raffaele Di Florio, costruiscono uno spettacolo sincretico e diseguale, come la vita che scorre tra i vicoli di Napoli. Dove gli opposti si urtano, si uniscono, si fondono, si separano, si sfidano, si combattono.
Uno spettacolo che ha l’urgenza di parlare al popolo e al blocco sociale al quale si rivolge. Uno spettacolo che ha la necessità etica di dare un messaggio: che sia politico, sociale, umano. Uno spettacolo dove, perseguendo le tracce filosofiche di Lukacs, l’estetica non prevalga sull’etica e la rappresentazione non celi l’implicita critica sociale alle dinamiche stritolanti del neoliberismo imperante.
Un messaggio che non collimi con il trionfante inno alla legalità benpensante – al quale si uniforma anche parte di una critica, francamente, ormai più inutile e dannosa, che imparziale, analitica ed equa, nel suo affannoso rincorrere le asfissianti logiche di mercato e i potenti signori della scena- ma si incarni nel Verbo rivoluzionario della Giustizia Sociale.
Forcella Strit è un fragoroso, chiassoso, imperfetto, entusiasmante manifesto umanista, affisso, come un murales di Jorit, sulle imbiancate e pallide facce di città e Teatri, che si vorrebbero asettici. Un umanesimo popolare e proletario, cui danno il loro struggente apporto le musiche e le parole delle avvolgenti canzoni di Nino D’Angelo. Da sempre, potente e viscerale cantore dei sentimenti del popolo napoletano.
Una Grande Magia, all’interno della quale si confondono -grazie all’intelligente trovata della metateatralità- realtà e finzione, personaggio e persona, attore e individuo; il tutto, diretto dall”incantata bacchetta di un eccentrico direttore di scena. Eduardo e Viviani, Moscato ed Edgar Lee Masters, Pino Mauro e Shakespeare, Totò e Brecht; e ancora, Cyrano de Bergerac, Gomorra, Così parlò Bellavista, Quartieri Spagnoli (di Gianfranco Gallo) sembrano, involontariamente, fare capolino dai balconcini di Forcella, dai quali pendono i proverbiali -volutamente e provocatoriamente oleografici- panni stesi. Mentre, sulla strada, spesso, ben altre “stese” si verificano.
Forcella diventa così -nella dimensione drammaturgica di Braucci, scenicamente trasposta da Abel Ferrara- sineddoche posta nel ventre della metropoli Partenope. Antica lingua biforcuta, delta di Venere da cui originano tutte le contraddizioni della città. Parte di un tutto, caotico eppur diffetente universo popolare, dove l’ incontro/scontro tra cultura alta e cultura bassa -tra Aura e Choc, per dirla con Benjamin- rimanda a quelle incursioni artistiche, dal sapore antropologico e aristocraticamente sottoproletario, che compiva un uomo di teatro come Leo de Berardinis.
Un finale evocativo, un po’melenso ma funzionale, nel suo illusorio e metaforico farsi tramite scenico tra la Vita e la Morte, chiude un allestimento vitale, vigoroso, appassionato, per quanto “sporco” -cui Abel Ferrara non ha fatto mancare originalissime soluzioni registiche- tra gli applausi convinti del pubblico.
Concludo, facendo alcuni nomi tra gli interpreti che, più di altri, a mio parere, si sono messi in luce: i due fratelli Daniele ed Emanuele Vicorito, che hanno dato sangue e nervi, ad uno dei momenti più toccanti dello spettacolo; l’accattivante Pierpaolo Ferruzzi, la vivace Giusy Freccia, Federica Raimo, la cui interpretazione canora è risultata particolarmente intensa; Piergiuseppe Francione, un affabulante direttore di scena. Ma il plauso, in questo progetto collettivo, va esteso a tutti: Diletta Acanfora, Bruno Barone, Livia Bertè, Gennaro Cuomo, Daniela De Vita, Giovanni Esposito, Greta Domenica Esposito, Maria Esposito, Angela Garofalo, Vincenzo Iaquinangelo, Emanuele Iovino, Giuseppe Madonna, Vittorio Menzione, Monica Palomby, Giorgio Pinto.
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