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The Big Other

Dal capitalismo delle piattaforme al capitalismo della sorveglianza.

Il capitalismo è una brutta bestia. Conosce l’arte del travestimento, sa passare inosservato per decenni, ed è capace di adattarsi a qualsiasi ambiente culturale, cambiando di volta in volta forma, come un parassita si adatta all’animale che infesta pur di salvarsi dal pericolo di estinzione. Il tardocapitalismo del terzo millennio si cela fra le pieghe di un termine molto accattivante: Tecnologia.

Più di mezzo secolo fa la nostra generazione, quella dell’assalto al cielo, fra i suoi obiettivi principali si era ripromessa giustappunto di non lasciare la gestione della tecnologia proprio al capitale.

Al volgere del millennio si è assistito ad una crescita esponenziale di applicazioni e piattaforme più o meno social che hanno concesso alla tecnologia un vero e proprio potere, fino a poter parlare di una fase che Shoshana Zuboff, laureata in psicologia sociale e specializzata in mondo digitale all’Università di Harvard, nonché dottore in Filosofia a quella di Chicago, ha chiamato terza modernità.

L’autrice nella sua ultima fatica The Age of Surveillance: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, uscito sul mercato anglo-sassone nel 2018 ma mai tradotto dalle nostre parti, rifacendosi ad alcuni pensatori del ‘900 fra cui Karl Polyani teorizza una forma di capitalismo da lei denominato “capitalismo della sorveglianza”, che supera la fase del “capitalismo delle piattaforme” di cui ha già ampiamente scritto Nick Srnicek qualche anno fa. L’utilizzatore ultimo, scrive la Zuboff – noi, in fin dei conti – dando il permesso di utilizzare i propri dati sotto forma di informazioni personali, comportamentali, “likes” e chi più ne ha più ne metta, diventa egli stesso “forza lavoro” non retribuita, sfruttata, e alimenta un’accumulazione originaria che si protrae senza soluzione di continuità, in pratica fa guadagnare milioni di dollari alle multinazionali della tecnologia (Google, Facebook, Instagram, ecc). Fin qui sembrano nozioni ed abusi già acquisiti.

La sua tesi però, per nulla peregrina, si sviluppa ancora e la scrittrice ci ricorda che tramite l’utilizzo sempre più massivo dell’IOT (Internet of Things), che mantiene sempre connessi tutti gli oggetti che ci circondano, e che immagazzinano informazioni continue su tutto ciò che facciamo e diciamo, la privacy diventerà un concetto obsoleto, nessun livello di privacy avrà più ragione di essere garantita, neanche dal IV emendamento della Costituzione americana. Che senso avrà parlare di privacy al tempo della biometria e del riconoscimento facciale?

La Zuboff va oltre: in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico The Guardian, dichiara che questo “salto quantico” arriverà a sostituire la politica con una governance strumentale, cioè lo strumento principale della governabilità diverrà l’infallibilità matematica delle previsioni basate sui dati a disposizione, in una parola: l’algoritmo.

E allora si può arrivare ad una conclusione, anche se di medio termine: se il capitalismo industriale, quello della “Ford modello T” per intenderci, era nato per dominare la Natura che ci circonda, il capitalismo della sorveglianza, delle multinazionali tecnologiche, dominerà la natura umana. Lo farà con un processo di accumulazione per spoliazione, tramite esproprio e noi glielo permetteremo accecati dal mito della “gratuità”, di una presunta e falsa “socialità”; pur di provare la nostra esistenza nel mondo contemporaneo. Per usare la metafora dell’autrice, quella della mano e del guanto, l’individuo, quello che per la Zuboff è la mano è sempre immerso e connesso all’ineluttabile bolla dei social (il guanto), nella quale appunto andrà ad inserire ogni tipo di dato.

Una ulteriore riflessione personale viene però da sé: calcolato che ogni equilibrio sociale verrà monitorato in tempo reale, cosa ne sarà delle classi sociali tradizionali? Verranno quasi sicuramente sostituite da nuovi “clusters” (aggregati) comportamentali, attraverso i quali si potrà agire singolarmente, ma per imporre uno status quo collettivo.

Ogni classe ne sarà coinvolta, persone delle età più disparate. E le nuove e nuovissime generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”, minori e non, ne saranno parte essenziale. Come? Ma attraverso un’escamotage fra i più subdoli: la gamification, tradotto in italiano viene un po’ meno bene: la ludicizzazione.

L’esempio più conosciuto è stato quello del Pokemon Go, dove giocando per la città, si indirizzavano traiettorie umane verso potenziali luoghi di consumo, (Mc Donalds, Starbucks, KFC…), uno fra gli obiettivi cardine di questo nuovo tipo di capitalismo.

Mi ricorda qualcosa: produci, consuma, crepa. Negli anni ’80 non ero in Italia, ma ricordo comunque questo verso di un pezzo dei CCCP, gruppo punk-rock nostrano di quegli anni che riecheggia le riflessioni di un filosofo tedesco un po’ controverso: costui parlava di “schiavi salariati” i quali, all’interno di un Sistema devono sottostare a questo diktat. Non hanno scelta, l’inganno è proprio in questo. La produzione nel nuovo millennio non (sempre) è pagata, si fanno più debiti per consumare ed elevarsi ad uno status, per sentirsi “integrati”. Poi, si può anche crepare, tanto quando si consuma troppo poco, si diventa solo un peso per lo Stato.

Da questo, per associazione, pensare a 1984 di Orwelliana memoria il passo è quasi obbligato; ma attenzione, non si tratta di totalitarismo, come nella profetica storia ambientata in un futuro distopico che per noi è già il passato di ben 35 anni fa; quello era un modello di Società che puntava a controllare gli individui con la paura, con progetti di ingegneria sociale, che garantivano il futuro di una società perfetta.

La governance strumentale di cui accennavamo poc’anzi invece, è un controllo “da remoto”, per usare un’espressione gergale, che registra tutto, incamera dati, ma non interviene mai, e si fonda sulla necessità di uno status quo che a sua volta, si regge su di un’apparente libertà diffusa.

Ma non credo di sbagliare se mi viene il sospetto che non solo la libertà diffusa è apparente. Come in ogni mondo virtuale che si rispetti, tutto sembra, ma solo alcune cose sono. La Zuboff ricorre ad un’immagine molto potente: il doppio libro, dove da un lato esiste il libro pubblico, scritto da tutti noi, dalla collettività, costituito da tutti i dati consapevolmente immessi e quindi di dominio pubblico, e dall’altro il libro privato, frutto dell’elaborazione di quei dati e che risulta “oscurato”, “segreto”, “per pochi”.

Il primo libro è free, gratuito, il secondo, quello esclusivo, ha una capitalizzazione finanziaria, di borsa, che supera diversi trilioni di dollari. Il cerchio si è chiuso: si lavora gratis per far ingrassare le multinazionali, al momento quelle tecnologiche, poi deciderà il Mercato, bellezza!

Mettiamocelo in testa. La tecno-finanza detiene il potere; dispone delle tendenze comportamentali dell’intera umanità. Questa immensa asimmetria informativa mi ricorda un certo Emile Durkheim che a fine ‘800 redasse la “divisione del lavoro sociale”. Da marxista, l’imperativo è d’obbligo: per senso di responsabilità è il caso di stare all’erta sui progressivi squilibri economici e sociali che andranno ad esacerbare in futuro ancor più la società umana, cristallizzandola su uno status quo che eviterà i conflitti sociali, ma renderà sistemiche le disuguaglianze.

E’ una Rivoluzione, una decolonizzazione che dovremo attuare singolarmente, ma allo stesso tempo, insieme, ricordando che le multinazionali della tecnologia spendono miliardi per esercitare ogni tipo di pressione nei confronti dei governi, e contro ogni tentativo di controllo da parte del legislatore, che si trova sempre “behind the curve”, in affanno, sempre inadeguato a legiferare.

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