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Sacco e Vanzetti. Quando “prima gli italiani” erano gli altri…

C’era un tempo, neanche troppo lontano, che l’odioso, vile, nauseabondo slogan “Prima gli Italiani”, di fascioleghista matrice, poteva voler dire altro. Una traslazione di senso, che a Salvini, ai suoi sodali fascisti – da Casapound a Forza Nuova, alla Meloni fino a tutti i nazionalisti, anche di sinistra, vibranti patrio orgoglio italico, non sarebbe piaciuta.

Il tempo, quello degli inizi del ‘900 – epoca di migrazioni di massa dal Belpaese, ad opera delle classi subalterne, verso i paesi del Nord Europa, l’Australia, gli Usa e alcune zone dell’America Latina – in cui Prima gli Italiani erano gli Altri.

Quel tempo in cui, prima gli Italiani significava che c’era qualcun altro a fare il “Padrone a casa propria”. E negli Stati Uniti, in particolar modo, prima gli Italiani poteva voler dire qualcosa di molto poco gradevole, e non certo lusinghiero per il nostro popolo e i nostri emigranti.

Prima gli Italiani, ad essere fermati. Prima gli Italiani, ad essere accusati. Prima gli Italiani, ad essere inquisiti. Prima gli Italiani, ad andare in galera. Prima gli Italiani, ad essere condannati. Prima gli Italiani, a friggere sulla sedia elettrica.

D’altra parte si sa, il razzismo è ottuso come una livella. Uguale per tutti. Perché si è sempre diversi da qualcuno. Meridionali di qualcun altro. Stranieri in terra straniera. O anche nella propria terra.

Se poi sei pure Anarchico o Comunista, in un paese a capitalismo avanzato e profondamente classista, va da sé. La sentenza di morte – fisica o civile – è scritta nelle stelle.

E così, il 23 Agosto 1927 – nel penitenziario di Charlestown, in quella cosidetta Terra dell’abbondanza e della democrazia che va sotto il nome di Stati Uniti d’America – Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (uno operaio, l’altro pescivendolo) italiani immigrati negli Usa, anarchici, la cui unica colpa era, appunto, esclusivamente quella di essere immigrati, italiani e anarchici, venivano giustiziati sulla sedia elettrica, per una rapina e un omicidio che non avevano mai commesso.

Il verdetto di condanna, emesso ancor prima del processo, da polizia, procuratori distrettuali, giudice, giuria e stampa governativa, fu determinato ovviamente dai pregiudizi e dalla ferma volontà di perseguire quella politica del terrore, intrapresa dall’allora ministro della giustizia Palmer, e culminata nella vicenda delle espulsioni.

Insomma, si era di fronte ad un Salvini americano degli anni ’20. In Stati Uniti che assomigliavano, non solo molto a quelli attuali, ma anche all’Italia dei nostri giorni. Ribollente di odio razziale e traboccante supposta superiorità di classe.

Il giudice Webster Thayer, che presiedeva la Corte del Massachusetts che condannò Sacco e Vanzetti, non si fece scrupoli, ad esempio, a definirli – con buona pace dell’imparzialità della Giustizia e della terzietà della Legge – «due bastardi italiani anarchici».

E già! Perché scioperare, fare politica, contestare il governo, manifestare per i propri diritti e contro la guerra imperialista, all’epoca, negli Usa, era complicato. Se eri comunista (o, invariabilmente, anarchico), impossibile. Se poi eri pure immigrato, la mannaia della repressione si abbatteva rapida e cruenta sul corpo dei malcapitati compagni, illusi di aver raggiunto la patria della Libertà. Insomma, uguale uguale, potremmo dire, all’Italia del 2019!

Mi sia concesso, a questo punto, aprire una parentesi.Come non ricordare, a tal proposito, l’altro italiano anarchico, Andrea Salsedo, che il 3 maggio del 1920, fu trovato sfracellato al suolo alla base del grattacielo di New York nel quale, al quattordicesimo piano, aveva sede il Boi (Bureau of Investigation)? Uffici dove Salsedo era tenuto illegalmente prigioniero, ormai da lungo tempo.

E come non rammentare che quel caso, oltretutto, fece scuola qui in Italia. Trovando zelanti allievi, cinquant’anni dopo, nei funzionari di polizia Luigi Calabresi (Commissario), Antonino Allegra (Responsabile dell’Ufficio Politico) e Marcello Guida (Questore) della Questura di Milano. Dai cui uffici – e precisamente dalla stanza del Commissario Luigi Calabresi – analogamente volò l’anarchico Pino Pinelli, trattenuto in semplice stato di fermo e interrogato formalmente per la strage di Piazza Fontana, avvenuta qualche giorno prima, il 12 dicembre 1969.

Morte da Anarchici. Morte da Comunisti. Morte da immigrati. Per mano della Polizia, della Magistratura, dello Stato.

Chiusa la parentesi, dunque, ritorniamo a Sacco e Vanzetti. A prima gli Italiani. E alla iniquità di una sentenza/omicidio dettata da agghiaccianti ragioni politiche, ideologiche, nazionaliste, le cui radici affondano nel molle ventre della xenofobia e del razzismo; e le cui ragioni vennero giustificate nel nome della sicurezza americana e del pericolo comunista.

D’altronde, il pregiudizio sociale e politico di cui Nick e Bart furono vittime ebbe a denunciarlo, con una requisitoria di fuoco, imbastita con parole che ancora oggi, fanno tremare le vene, pulsare le tempie, agitare il cuore ed evocare la vendetta, proprio Bartolomeo Vanzetti: «Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste creature ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già».

Sto soffrendo perché sono un anarchico. Sto soffrendo perché sono un italiano. Una colpa ancestrale. Una stimmate indelebile. E un dio/giudice kafkiano a sovrintendere!

Del resto ancora Vanzetti, aveva avuto modo di descrivere, sempre nel corso del processo, le sensazioni, non certo positive, che lo assalirono non appena fu sbarcato sul suolo americano: «Al centro immigrazione (sorta di Cie ante litteram, ndr) ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America».

Il trattamento animalesco, inumano, distaccato e al contempo violento – che molto ricorda le evacuazioni naziste dei ghetti ebraici a partire dal 1939, e le conseguenti catalogazioni  sembra essere, pertanto, una peculiarità dei centri di prima accoglienza e dei paesi ospitanti, omologata a tutti gli immigrati – ovviamente poveri – e a tutti i periodi caratterizzati da forti flussi migratori.

Una violenza e una disumanità alimentate dalla paura, inoculate ad arte dalle forze reazionarie in tessuti sociali attraversati da forti crisi economiche (Germania post grande depressione del’29; Italia e altri paesi europei oggi, dopo la crisi sistemica del 2008); o da plasmare secondo i rigorosi dettami del liberismo teorizzato da von Hayek, come gli Usa degli anni ’10/ 20 del novecento.

Basta leggere, per comprendere quanto stiamo dicendo, la oramai famigerata Relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione al Congresso Americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, datata all’Ottobre del 1912: «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

Un testo di un’attualità sconcertante. Un testo che potrebbe aver scritto Salvini, qualunque sindaco leghista italiano o qualunque altro politicante razzista e xenofobo europeo. Da Orban a Farage, dalla Le Ppen al presidente polacco Duda.

Un testo che ci dice, con la nettezza tipica della testardaggine dei fatti incontestabili, che c’era un tempo in cui Prima gli italiani erano gli Altri.

Per questo furono uccisi Sacco e Vanzetti. Perché italiani. Perché immigrati. Perché anarchici.

Oggi, sulle nostre coste, nei nostri mari, alle nostre frontiere, nelle nostre città, muoiono, vengono uccisi, picchiati, arrestati, migliaia di esseri umani. Solo perché arabi, africani, rom, sinti, ucraini, albanesi. E potrei continuare.

Del resto, si è sempre stranieri in terra straniera. O meridionali nella propria terra!

Here’s to you, Nicola and Bart/Rest forever here in our hearts/The last and final moment is yours/That agony is your triumph!

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