Cominciamo da un punto che va a favore di Squid Game: il fatto che si stiano verificando così tanti tentativi di emulazione, al punto che si tratta forse della prima serie ad aver portato la cultura cosplayer al livello mainstream – i ristoranti dove si può provare a staccare la figura dell’ombrello dalla glassa di zucchero, come nel secondo gioco; le riproduzioni della bambola con sensore di movimento di un-due-tre-stella; le tute rosa; i simboli geometrici apparsi un po’ ovunque – mostra che la serie ha toccato corde profonde.
Al punto che non è così inverosimile immaginare che da qualche parte qualcuno possa organizzare un vero e proprio Squid Game. Cioè, andando all’osso, una competizione in cui si mette in gioco la propria vita per arrivare a un premio in denaro. Qualcuno, anzi, guardando Squid Game avrà pensato: Perché non esiste davvero? In fondo nessuno era costretto…
Certo la serie tv non è così esplicitamente cinica: i personaggi abbandonano una prima volta il gioco, poi tornano costretti dai propri problemi personali, poi hanno problemi di coscienza e, anche quando tutto finisce, il nostro protagonista, il vincitore numero 456, continua ad essere tormentato dai sensi di colpa. Ed è comprensibile: direttamente o indirettamente ha partecipato – scelto di partecipare, oltretutto, tornandoci dopo esserne uscito, tornandoci con la consapevolezza di cosa sarebbe successo – e sfruttato un meccanismo che ha ucciso 450 persone (14 hanno effettivamente abbandonato il gioco e 1 era l’organizzatore anziano). Anche gli altri personaggi, quasi tutti, sono ambigui, sfumati, cinismo e compassione si mescolano e la serie salta da un polo all’altro, fino alle ultime scene.
Anche questo è un punto di forza di Squid Game: non giudica i suoi personaggi e, così, nessuno spettatore si sente giudicato. Non ci sono risposte, così tutte le risposte sono buone. Prendiamo il doppio finale.
Hai fiducia nell’essere umano?
Prima vediamo l’anziano organizzatore che, sul proprio letto di morte, decide di fare un ultimo “gioco” con il protagonista: mostrando una persona in difficoltà sul marciapiede in una notte d’inverno gli chiede se pensa che qualcuno lo aiuterà o se morirà, davanti ai loro occhi, di freddo, sepolto vivo dalla neve. «Hai ancora fiducia nell’essere umano?», gli chiede più o meno, e il sottinteso non è, secondo me, dopo tutto quello che hai passato, ma più realisticamente va inteso come dopo tutto quello che hai fatto.
Non è chiaro se la persona sul marciapiede sia un senza tetto, una persona colpita da una malanno, o magari solo ubriaca: è uguale, il messaggio è che qualsiasi deviazione dalla “norma” (implicitamente rappresentata in tutta la serie da persone economicamente stabili, funzionali al sistema economico, adattate, lavoratori) potrebbe portare alla morte. E l’altra cosa scontata è che loro due che stanno “giocando” non possono intervenire: il protagonista, dopo essere sopravvissuto ai sei giochi di Squid Game, accetta le regole anche di quel settimo gioco. Non gli viene in mente che, invece, sarebbe potuto uscire e aiutare la persona in difficoltà: la sua condizione, la nostra, è quella di spettatore, è una scelta volontaria ma non lo sembra.
La persona in strada alla fine viene soccorsa, grazie alla solidarietà di un passante che chiama un’ambulanza (un gesto tutto sommato normale) ma l’anziano l’organizzatore nel frattempo è morto, la mente diabolica dietro lo Squid Game non ha visto la scena dei soccorsi. How convenient.
E se l’avesse visto?, viene da chiedersi. Cosa sarebbe cambiato, avrebbe rivisto la sua geniale idea di uccidere poveri e disperati durante giochi per bambini (di questo aspetto perverso della serie parlerò tra poco)? Tutta questa storia (che a un certo punto della serie scopriamo durare da diversi anni) serviva da esperimento sociale per capire la vera natura dell’essere uomano?
Qual è la vera natura dell’essere umano?
Poi c’è l’altro finale, quello che non è piaciuto a Lebron James. Il protagonista, ormai ricco e ripulito, sta per partire per gli Stati Uniti, dove è emigrata la sua ex-moglie con la figlia. Capisce però che qualcuno sta organizzando un nuovo Squid Game e decide di restare e fare qualcosa. Cosa, boh, lo vedremo forse nella seconda stagione. Lebron ha detto una cosa tipo: “Ma sali su quell’aereo e vai da tua figlia!”, ed è interessante che, secondo Lebron, il messaggio finale della serie non sia abbastanza egoista. Ed è un’osservazione che ci saremmo potuti aspettare da un personaggio della serie, come se un buon utilizzo dei soldi del premio potesse in qualche modo rivalutare la morte degli altri partecipanti.
Ma questo è il punto centrale della serie, la sua più grande ambiguità, che rappresenta la solidarietà non come un’alternativa alla violenza e all’ingiustizia, ma come gesto autolesionista, sconveniente, un sacrificio inutile o comunque invisibile, rimosso dallo sguardo dei potenti che – immagino, con una deduzione che mi pare logica – “non hanno fiducia nell’essere umano”, che quindi oltre che inutile è anche innocuo.
Quello su cui gioca la serie, trasformandolo in oggetto di trattativa, è l’idea di cosa ci sia nel fondo del cuore umano, ma la risposta implicita che dà (senza forse rendersene conto) è che l’uomo sia intrinsecamente “cattivo”, egoista, cinico, persino crudele. Come se l’istinto di sopravvivenza fosse tutt’uno con una latente capacità di uccidere. Possiamo ragionare di etica finché vogliamo ma alla fine la materialità dell’esistenza umana prevarrà comunque, provate a togliere a un uomo comune i suoi privilegi, le sue sicurezze, e verrà fuori una bestia: non è così che pensano molte persone?
Il fatto che i giochi mortali a cui partecipano i concorrenti di Squid Game siano giochi per bambini forse si spiega (al di là delle questioni pratiche di sceneggiatura di cui ha parlato il creatore della serie): con l’idea che non esista nessuna innocenza, che dietro la competitività dei bambini si cela questo istinto assassino comune a tutti. Ancora: non è proprio questo che pensano in molti, quando sottolineano che i bambini sanno essere crudeli tra di loro (senza chiedersi se magari non dipenda dagli adulti con cui crescono), che i bambini vanno contenuti, controllati, disciplinati?
Quanto sono estese le tenebre?
Ma sono discorsi astratti, proprio come Squid Game in fondo è solo una serie di fantasia. Abbiamo però la Storia a cui guardare e, anche se questa mia riflessione rischia di essere altrettanto superficiale rispetto alla possibile estensione dell’argomento, voglio provare a fare un collegamento con un “fatto storico”, chiamiamolo così.
Nel libro In quelle tenebre (Adelphi) la scrittrice Gitta Sereny indaga attorno a Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka. In molte interviste a Stangl, in prigione, e alla moglie, a casa sua, molti anni dopo gli orrori descritti nel libro, Gitta Sereny cerca di confrontarli con le loro responsabilità individuali.
Tutte le sue domande sono volte, oltre che alla ricostruzione dettagliata dei fatti, alla determinazione delle loro responsabilità, che non derivano esclusivamente dalle azioni eseguite direttamente (pur facendo funzionare e dirigendo un campo in cui sono stati assassinate tra le 750 e le 900mila persone, Franz Stangl non ha ammazzato nessuno con le proprie mani; né era un convinto nazista, o antisemita; lui, per quanto può sembrare assurdo ora, voleva solo fare il proprio lavoro in modo efficiente) ma dalla consapevolezza dell’orrore stesso, a cui non è stata negata una qualche forma di partecipazione.
Franz Stangl arriva da solo a una risposta parziale, alla fine dell’ultima intervista, quando parlando di “dio” e di “verità” arriva a dire: «La mia colpa è di essere ancora qui».
Al che Sereny dice: «Intende dire che avrebbe dovuto morire, o che avrebbe dovuto avere il coraggio di morire?». «Può anche metterla così», risponde Stangl. Diciannove ore dopo quell’ultima conversazione, Franz Stangl è morto in seguito a un attacco di cuore. Sarebbe morto lo stesso molto presto, ma per Sereny che lo abbia fatto proprio dopo quella specie di confessione significa che gli è stato fatale essersi «messo di fronte a se stesso», trovarsi per la prima volta di fronte «all’uomo che avrebbe dovuto essere».
La discussione su cosa ci sia nel cuore dell’uomo è ovviamente destinata a restare senza una risposta certa, scientifica, e dal punto di vista letterario è semplicemente irrilevante. Da quello culturale, però, le molte risposte che ci diamo sono significative.
Squid Game vuole essere una metafora della nostra società, ma essendo a sua volta un prodotto di quella stessa società ci dice qualcosa a un livello più profondo di quello intenzionale, ha un significato al di là del significato stesso della sua metafora.
In sintesi, in Squid Game non esiste alternativa, il protagonista – come da tradizione – vince, e lo fa, in teoria, senza sporcarsi le mani, proprio come pensava di aver fatto Stangl. Anche se, a pensarci bene, la squadra avversaria nel tiro alla corda l’ha spinta anche lui giù dal ponte, così come tutte le altre morti sono legate anche alla sua presenza-partecipazione al “gioco”.
Il cuore umano, cioè, non è del tutto marcio, ma è impossibile sfuggire al compromesso, l’oscurità di una società cinica e disumana, le tenebre del capitalismo – più estese persino di quelle del nazismo si direbbe – corrompono anche i migliori. Come Stangl, anche il nostro protagonista, il numero 456, il più umano tra quelli in gara, non ha avuto «il coraggio di morire».
Una consolazione avvelenata
La mia impressione è che questo sia un tipo di messaggio molto presente nella nostra cultura, un’idea di essere umano condivisa anche da persone non ciniche, in ambienti molto diversi tra loro. Un’idea trasversale, indipendente dall’estrazione sociale o dal livello di studi, che però depoliticizza l’essere umano stesso e, in definitiva, lo deresponsabilizza di qualsiasi orrore non commetta in prima persona (negando oltretutto qualsiasi conseguenza sul piano psichico).
Eppure non è la sola idea possibile e, anzi, c’è anche chi, dopo essersi confrontato con l’orrore, è arrivato anche ad altre conclusioni.
Gitta Sereny scrive nel suo epilogo (il libro è stato pubblicato nel 1974), interrogandosi proprio su cosa ci sia nel profondo di tutti gli esseri umani e come siano possibili accecamenti tali come quello che ha permesso a persone “normalissime”, come diremmo oggi, di partecipare all’Olocausto: «Io credo che un mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel suo sviluppo. Io non so cosa sia questo nucleo. Mente, spirito, o forse una forza morale finora innominata. (…) La moralità sociale dipende dalla capacità dell’individuo di prendere decisioni responsabili, di fare la scelta fondamentale tra il giusto e l’ingiusto; questa capacità deriva da questo misterioso nucleo – che è l’essenza stessa della persona».
Ed è interessante il fatto che per dieci anni l’idea di Squid Game, la serie, sia stata rifiutata dai produttori, mentre oggi è diventata un successo planetario. Forse la risposta sta in tutte quelle cose che, nel frattempo, abbiamo accettato passivamente.
Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, il successo di Squid Game (inaspettato, tanto che Netflix non aveva neanche preparato il doppiaggio) si spiega con la domanda che molti si sono fatti guardandolo: sicuri che sia più sbagliato chiedere a delle persone disperate di uccidersi in cambio di un premio in denaro rispetto a pagare delle milizie armate per torturare degli immigrati? Più sbagliato di chi muore di cancro per andare a lavorare? Più sbagliato di chi muore a causa di un macchinario manomesso per fare più profitto?
Il successo di Squid Game si spiega con la sua ambiguità, il continuo oscillare tra indignazione morale nei confronti della violenza sociale e fisica rappresentata, e accettazione passiva dei suoi protagonisti senza alternativa. Che poi è il modo in cui interpretiamo gli orrori di cui quotidianamente veniamo a sapere.
Squid Game, in fin dei conti, ci consola rispetto alla nostra mancanza di iniziativa, ma è una consolazione avvelenata perché ognuno di questi orrori – ogni nuovo “gioco” omicida – a cui facciamo da spettatori, da complici, la nostra capacità di distinguere il giusto dall’ingiusto ne esce danneggiata.
da qui Segnalato da La Bottega del Barbieri
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