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La scuola nell’epoca della sua aziendalizzazione

Un gruppo di docenti della scuola secondaria di secondo grado, presente per il momento in alcune scuole della Sardegna e della Calabria, ha elaborato uno studio di cui pubblichiamo la parte conclusiva.

Il testo integrale del documento è leggibile e scaricabile QUI

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La scuola-azienda ha lo scopo, evidente e in gran parte dichiarato, di formare il ‘capitale umano’ necessario a un’economia di mercato nelle sue aree dominate dal terziario: venditori e consumatori di merci in larga misura destinate a un tempo libero dominato da bisogni indotti.

Questa è la scuola che abbiamo oggi nel “mondo occidentale”. Laddove sembra che non sia così, ci stiamo imbattendo in un limitato aspetto residuale la cui cancellazione è già prevista da disposizioni che entreranno in vigore nei prossimi mesi, producendo i loro effetti nel giro di pochi anni al massimo.

Se pensiamo di avere bisogno di una scuola diversa, pensiamo che i nostri interessi siano antagonistici a quelli del mercato, dei capitali privati che vi si scontrano e della mentalità aziendale che producono. La società in cui viviamo è basata su quegli interessi, e perciò la sua scuola è fatta così.

Discutere di un modello di scuola radicalmente alternativo senza mettere in discussione il modello sociale non ha senso, è un ibrido tra l’infantilismo e l’intellettualismo da salotto.

Chiediamoci allora in quali interessi ci riconosciamo, quali aspetti del modello sociale vigente li contrastino, che tipo di scuola serva per contribuire ad affermarli e in quali condizioni oggettive si troverebbe a operare per farlo.

Chi siamo?

Siamo lavoratori della scuola. Più in generale, lavoratori del settore dell’istruzione e del sapere. Ancora più in generale, cittadini che vivono grazie alla vendita di una forza-lavoro con cui si producono merci immateriali.

Non siamo missionari. Esercitiamo una professione che, nella nostra società, è un lavoro di massa. Un lavoro che spessissimo, per ragioni indipendenti dalla volontà del lavoratore, viene scelto per mancanza di opzioni alternative dello stesso livello.

Pertanto, non può che essere esercitato in stragrande maggioranza da persone che lo esercitano per necessità, non per vocazione. Persone a cui deve essere pienamente riconosciuto il diritto di esercitarlo per quella causa e non altra. Qualunque prospettiva non tenga conto di queste premesse è ipocrita.

Essendo lavoratori, abbiamo come naturale avversario la scuola-azienda: non in quanto scuola, ma in quanto espressione di interessi di capitali privati in competizione fra loro. Abbiamo la naturale necessità di spezzare l’assetto dell’autonomia scolastica, che fa di ogni istituto una “grande famiglia” in concorrenza con le altre, che tende a generare al proprio interno un deleterio “spirito di corpo”.

Essendo lavoratori, condividiamo gli stessi interessi di tutti i lavoratori: personale docente e non docente della scuola in cui ognuno di noi insegna e degli altri istituti scolastici, e chiunque, in qualunque settore, pubblico o privato, viva del proprio lavoro e non dello sfruttamento di quello altrui.

Abbiamo allora individuato la scuola che vogliamo, l’unica che potremmo chiamare “nostra”: una scuola che aiuti i futuri lavoratori a sviluppare strumenti per la loro emancipazione collettiva.

Ma naturalmente esercitare un mestiere per necessità non esime dal doverlo esercitare secondo la prevista deontologia, consapevoli delle sue specificità, dotandosi della necessaria preparazione e perseguendo gli obiettivi che consentono a quella professione di rendere un servizio alla collettività.

Tali obiettivi, nel caso della scuola, non sono definibili considerando soltanto i lavoratori. Al centro del mondo scolastico vi è lo stretto rapporto fra un insieme di lavoratori e uno di non lavoratori: gli alunni. Dunque: chi sono, oggi, gli alunni?

Gli alunni

Riteniamo che tre fattori vadano tenuti in considerazione.

Il primo riguarda lo spazio occupato dalla scuola nell’educazione. Fino agli anni ’90 del XX secolo, pur con un’enorme variabilità fra zone, epoche, ambienti socio-culturali, l’universo educativo della persona che frequentava regolarmente le scuole aveva due poli dominanti: la scuola stessa e la famiglia. Era da questi due soggetti che veniva mediato il contatto con il mondo prima del raggiungimento dell’età adulta e dell’indipendenza.

Altri ambienti, come quello ecclesiastico, quello militare per i ragazzi in occasione del servizio di leva, gruppi di pari, eventuali società sportive alle quali i più fortunati venivano iscritti etc., ricoprivano ruoli più marginali o meno trasversali all’intera popolazione, oppure intervenivano solamente verso la fine dell’adolescenza, quando ormai la formazione della personalità era incanalata.

Faceva eccezione, in parte, il ruolo della chiesa, che fino agli anni ’60 del Novecento contese a scuola e famiglia il campo dell’educazione, per lo meno nell’infanzia.

La ragazza o il bambino, il giovane o la preadolescente varcavano la soglia dell’aula e lì si affacciavano, tramite l’insegnante, su un mondo al quale non conoscevano altri accessi. Ne fosse consapevole o meno, chi insegnava nella scuola era responsabile dell’educazione delle nuove generazioni in misura cospicua, e in via esclusiva per quel che riguardava alcuni aspetti di essa.

Le cose cambiarono in parte con l’avvento della televisione. Essa fu un quarto soggetto coinvolto nell’educazione, ma aveva limiti oggettivi che ne condizionavano l’influenza. Per quasi tutta l’epoca che stiamo considerando, le emittenti televisive non trasmettevano 24 su 24, ma in determinate fasce orarie, che soltanto nel corso degli anni ’80 arrivarono a coprire tutte le ore diurne, mentre per palinsesti estesi all’intera notte bisognerà attendere il decennio successivo.

Inoltre, il televisore era in quegli anni un elettrodomestico familiare, non portatile e inevitabilmente gestito in base alle regole stabilite dagli adulti di casa, i quali avevano la possibilità di vietarne l’uso indiscriminato. Infine, i programmi televisivi erano allora (oggi esistono eccezioni) prodotti realizzati e confezionati da professionisti secondo dispositivi di legge e codici deontologici analoghi a quelli delle altre professioni.

Per tutte queste ragioni, l’aggiunta della tv al novero dei soggetti coinvolti nell’educazione modificò sensibilmente il quadro, ma non lo stravolse.

Negli ultimi due decenni circa, l’alunno è antropologicamente mutato. Le persone che ci troviamo davanti fra i banchi, con una rapida digitazione sul loro dispositivo tascabile, hanno potenzialmente accesso giorno e notte, senza controllo e senza soluzione di continuità, a qualunque informazione prodotta da chiunque in qualsiasi momento in qualsiasi parte del mondo su qualsiasi tema, con qualsiasi mezzo, espressa in qualsiasi linguaggio e priva di qualsiasi mediazione fra l’emittente e il ricevente.

Non c’è modo di evitare che tale emittente sia (come di fatto nella maggior parte dei casi è) un individuo che del tema trattato sa quanto il ricevente e delle regole della comunicazione ancora meno. E non c’è modo, per insegnanti e famigliari, di possedere sull’argomento specifico di ogni messaggio ricevuto dalla persona posta sotto la loro responsabilità strumenti di decodificazione superiori a quelli della persona medesima.

Il prodotto di tali dinamiche è una massa di bambini e adolescenti in possesso assai precario di una quantità abnorme, informe e sconclusionata di informazioni labilissime, dalla costante volatilità, e abituati a non doverle approfondire o fissare, perché sono sempre a portata di mano.

Tale natura precaria e frammentaria del bagaglio cognitivo in loro possesso non cambia il fatto che esso viene maturato in misura preponderante al di fuori della scuola. È opportuno non sottovalutare questo aspetto della problematica e meditarvi a fondo: la sua più diretta conseguenza è che ogni qualvolta un insegnante si definisce “l’educatore” dei suoi alunni sta riflettendo sul proprio ruolo sociale con un macroscopico errore di prospettiva, immaginando la propria attività in un contesto in cui la scuola abbia la funzione che aveva ai tempi in cui lui era l’alunno.

Piaccia o meno, noi non siamo più i principali fra pochi soggetti deputati all’educazione di quegli individui che sono nostri alunni. Siamo semplicemente coloro i quali li accompagnano per un tratto quantitativamente esiguo e qualitativamente non più centrale lungo il loro percorso educativo.

Tuttavia, se hanno perso centralità, i docenti della scuola hanno forse addirittura accentuato la specificità del loro ruolo educativo: sono infatti rimasti gli unici a fornire a bambini e adolescenti una esperienza formativa strutturata e collettiva in una società liquida e individualistica in cui sono pochi i punti fermi, un’educazione alla complessità dove domina la semplificazione banalizzante.

Occorre capire che deve farsi un costante esercizio autocritico perché l’astratta mentalità dell’educatore si cali nella realtà corrente in cui lo studente vive. Interrogarci su questa mutazione di senso del nostro ruolo è un’incombenza ineludibile, se si vuole evitare il rischio di fermarsi alla critica passiva dell’esistente e iniziare a immaginare una scuola veramente diversa.

Un secondo fattore che influisce sulla forma mentis dei nostri alunni è costituito dalle modalità in cui si svolge la comunicazione fra loro. La illustriamo con un esempio.

In una chat fra due adolescenti viene inviato il seguente messaggio:

Il contenuto semantico, nella sua genericità, è relativamente chiaro, ma non è strutturato. Questa operazione è a carico del destinatario, che dovrà decidere se il significato sia “Ti andrebbe una birra?” o “Hai bevuto birra?” o “Quando ce la beviamo una birra?” etc.

L’esempio è volutamente elementare, ma sappiamo che la stessa modalità si riproduce anche in casi molto più articolati. E soprattutto sappiamo che è ormai l’unica modalità di comunicazione esistente fra i giovani e i giovanissimi. Si noti di passaggio che poco cambia quando il messaggio ipotizzato è sostituito da questo:

«Birra?»

La sintassi, cioè la strutturazione discorsiva, logica, razionale della comunicazione, è aggirata. Che si impieghi il codice verbale, quello iconografico o qualunque altro, ci si preoccupa soltanto di suggerire il generico contenuto semantico del messaggio e il resto è lasciato al contesto e alla specifica intesa fra emittente e destinatario.

È un modello semiotico che, per così dire, sostituisce la strutturazione del messaggio, atta a riprodurre i diversi possibili livelli di complessità del referente, con il principio della libera associazione di idee. Un modello nato in ambiente informatico e web e massicciamente mutuato nella comunicazione dal vivo.

Terzo ed ultimo fattore che prendiamo in considerazione è il contesto in cui tali processi avvengono. È il contesto che fin qui abbiamo parzialmente esaminato. Quello in cui sono salite in auge le competenze non cognitive e la “cultura terapeutica”, la mentalità individualistica e l’illusione dell’oggetto adattato al soggetto.

Un contesto che organizza talk show nei quali i partecipanti alla discussione esprimono a turno le rispettive opinioni e, al termine del giro, il conduttore introduce un altro tema, senza che sul precedente sia avvenuto un reale confronto per verificare quale fra le proposte avanzate sia più efficace nell’affrontare il problema sul tavolo.

Un contesto nel quale la giusta critica dell’approccio fideistico al progresso scientifico diventa attacco irrazionalistico all’idea di progresso e riduzione della scienza all’utilità del mercante. Il tutto mentre uno slogan martellante riverbera come un’eco inestinguibile ovunque: l’importante è esprimere le proprie emozioni.

Ecco da dove viene l’ingenua, spaesata, spaurita figura che ci siede di fronte in aula. Quell’essere spavaldo e fragile che passa da una crisi di panico a un atto di bullismo reale o presunto, subito o perpetrato.

Quell’individuo che in qualsiasi frangente si sente dire dall’intera “società dello spettacolo”: “Esibisciti!” e se l’applausometro non decreta il trionfo scoppia in lacrime come ormai fanno i campioni di calcio quando sbagliano un calcio di rigore, increduli nello scoprire che sponsor e look all’ultima moda non li salvano dal ridicolo senso di fallimento per una partita persa.

Solitamente la riflessione su questa problematica assume la piega del preoccupato allarme: i nostri ragazzi! Come faranno così in balia del “mondo grande e terribile”? Dopo di che la preoccupazione sfocia in una sterile polemica su quanto e come si debba consentire l’uso di quei dispositivi tascabili, quanto e come si debba ricorrere alle vie terapeutiche per affrontare quelle crisi di panico, quanto e come quei rigoristi che piangono influenzino i giovani: “apocalittici” di qua, “integrati” di là.

La domanda che qui ci interessa è un’altra, e non può che essere aperta: la scuola che vogliamo che cosa e come dovrebbe provare a insegnare a questi alunni con qualche speranza di riuscirci?

Che fare?

Più volte in questa trattazione abbiamo dovuto toccare un tema che non siamo certo noi a porre per primi e che nessuno ha mai risolto: come fare ad avere una scuola che sia scuola di tutti, ma che per esserlo non rinunci a insegnare ciò che, nelle condizioni di partenza, è raggiungibile solamente da una minoranza? Come fare, cioè, a fare della scuola un mezzo per modificare quelle condizioni anziché assumerle come immutablili?

Soltanto affrontando questi interrogativi si dà vita a una scuola che persegue l’emancipazione delle classi popolari e inconciliabile con gli interessi del capitale e della sua scuola-azienda.

Un autore da noi più volte citato, Lucio Russo, propone un’interessante riflessione sui tentativi esperiti in passato per sostituire gli studi classici nei curricula scolastici con sintesi unificanti alternative. Ci associamo al suo giudizio negativo sugli esiti di quegli esperimenti105.

Ravvisiamo, invece, un limite della sua posizione sul versante propositivo106. Egli si sforza di trovare vie per sottrarre all’asservimento al mercato la scuola di una società dominata dal mercato. Riconosciamo lo sforzo e ne condividiamo le intenzioni, ma ancor più condividiamo il pessimismo in proposito dello stesso Russo, esternato in varie occasioni pubbliche107.

Lo studioso rileva come l’assottigliamento degli strati sociali intermedi portatori della cultura generale condivisa, di cui abbiamo parlato sulla scorta delle sue riflessioni, abbia ridotto la capacità della scuola di agire come “ascensore sociale”.

È chiaro che la polarizzazione della società, anche da noi parzialmente descritta, toglie prospettive a chi intraprende un percorso scolastico per la propria emancipazione. Venendo a mancare gli sbocchi, all’emancipazione culturale si accompagna molto più raramente quella sociale. L’unico movente per lo studio rimane quindi la crescita culturale come fine in sé. La conclusione di Russo è che si debba pensare a una scuola per le ridottissime minoranze che faranno proprio tale movente.

Da parte nostra, riteniamo che questo possa forse rivelarsi un obiettivo tattico minimo a cui essere costretti nei tempi brevi o medi. Ma in prospettiva una scuola avversa alle logiche di mercato in una società fondata sul mercato non può esistere.

Le apparenti eccezioni del passato non sono riproducibili in una fase di sviluppo del capitalismo mondiale avanzata come quella che attraversiamo. La scuola dei moderni paesi capitalistici in cui prevale il settore terziario è la scuola-azienda, e tale resterà. Non si dà soluzione al problema se non nella lotta per un’altra società e per un’altra umanità.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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4 Commenti


  • MANLIO LO PRESTI

    Articolo molto interessante. Vorrei avere la vostra autorizzazione a pubblicarlo nella mia Rassegna stampa che diffondo su http://www.dettiescritti.com . Grazie


    • Redazione Contropiano

      Nessun problema…


  • Eros Barone

    La domanda più generale sulla funzione della scuola oggi è quella concernente la sua natura di classe, e tale domanda non può essere circoscritta, pena uno scadimento di carattere moralistico e/o tecnicistico, all’àmbito sovrastrutturale del mercato, della aziendalizzazione e della comunicazione semiotica. Si tratta allora di far emergere la natura contraddittoria della scuola in quanto espressione dei conflitti e degli antagonismi sociali: ecco perché la scuola rappresenta qualcosa di diverso a seconda che venga inserita in un progetto alternativo che ha la sua radice oggettiva nella sfera produttiva oppure che sia sganciata da esso e sublimata su un piano meramente intersoggettivo (e dunque pedagogico in senso deteriore). Se invece noi consideriamo come protagonisti della scuola semplicemente gli individui con i loro progetti di vita, ecco che le soggettività collettive, le classi e le forze sociali scompaiono dall’orizzonte, talché la scuola perde il proprio aggancio ad un’idea di trasformazione della società che investa i metodi e i contenuti, la qualità e gli sbocchi della riproduzione del sapere, e che pertanto è irriducibile ai progetti riformatori della pedagogia di sinistra, laddove questi, essendo sempre incentrati sui problemi relativi ai diritti e alla loro violazione, alla discriminazione e all’inclusione, finiscono con l’occupare l’intero orizzonte della riflessione politica. D’altro canto, il fatto di focalizzare la natura conflittuale di ciò che avviene nella scuola come rispecchiamento di ciò che avviene nella società dovrebbe spingere chi riflette sulla scuola, quale che sia il livello in cui ciò avviene, ad uscire dall’ottica formale, metodologica e ortopedica della pedagogia e a reintrodurre le questioni politiche, la storicità e la determinazione sociale del sapere nel dibattito educativo. In altri termini, vi è bisogno di un’ottica che, per essere progressista, dovrebbe tornare ad essere materiale e tendere a individuare gli elementi strutturali che determinano il contesto in cui le relazioni accadono, rendendole possibili. Quindi, se da un lato occorre, come si è auspicato a suo tempo, “riscolarizzare la scuola” liberandola dalla paccottiglia utopistica e regressiva dell’antipedagogia di matrice sessantottesca, dall’altro è fondamentale mantenere la tensione tra scuola e società senza ridurre i problemi scolastici a problemi didattico-relazionali. Il punto è che la durezza granitica dei rapporti di produzione blocca in partenza e distorce ogni tentativo di modificarne gli effetti a partire dalle relazioni infrascolastiche: le proposte pedagogiche (ad esempio, quelle riguardanti il voto) possono certo modificare questo o quell’aspetto, rendere più inclusiva la scuola sotto questo o quel punto di vista (alimentando il mito irenistico della “scuola di tutti”). Ma ogni volta che la causa dell’esclusione si lega ai rapporti di classe ecco che il limite dell’intervento pedagogico diventa evidente e negarlo ci proietta direttamente nelle sfere sublimi dell’idealismo e dell’utopismo, nel sogno ad occhi aperti di una democratizzazione senza conflitto o di una retorica astrattamente ideologica dei diritti. Sennonché occorre comprendere, traendo da questa comprensione tutte le necessarie conseguenze, che la radice del male (dei mali) non sta nell’assenza dei diritti, ma nel capitalismo.


  • Oltrelascuola

    “La domanda più generale sulla funzione della scuola oggi è quella concernente la sua natura di classe, e tale domanda non può essere circoscritta, pena uno scadimento di carattere moralistico e/o tecnicistico, all’àmbito sovrastrutturale del mercato, della aziendalizzazione e della comunicazione semiotica”.

    Il documento è lungo più 40 pagine e questi temi sono svolti nellle precedenti 30. E’ una base di discussione aperta fra lavoratori della scuola, non una piattaforma programmatica di un’organizzazione che non siamo: https://documentoscuola.altervista.org/la-scuola-aziendalizzata-2/

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