Da poco è uscito nelle sale il film “All we imagine as light“, (con titolo tradotto in italiano – un po imbarazzante – “Amore a Mumbai”) della regista indiana 38enne Payal Kapadia, dopo aver suscitato grande interesse e stupore alla sua presentazione al Concorso di Cannes nel maggio scorso.
Il film segue le vicende di Prabha, una donna originaria di un villaggio del Kerala che lavora a Mumbai come infermiera in un ospedale della città.
Alla sua si intrecciano le storie della giovanissima Anu anche lei infermiera allo stesso ospedale e conquilina di Prabha, e di Parvaty, cuoca dello stesso ospedale.
Più generazioni che si incontrano e si intrecciano, tre vite che partite dalla campagna sono approdate nella giungla della metropoli sempre sveglia e in movimento, caotica e sovraffollata.
Qualcuno lo ha definito un film “femminile” per il genere delle protagoniste, o addirittura una versione orientale delle novelle alla Jane Austen, dove la donna ancora sottomessa alle regole del patriarcato lotta a modo suo per rivendicare il suo diritto all’amore.
Ma questo banalizzerebbe molto la pellicola schiacciandola sulle vicende “romantiche” che in realtà fungono da pretesto per comporre un ritratto in movimento di una condizione sociale ancora molto legata alla tradizione, allo sfruttamento e all’esclusione sociale delle caste ma che esprime, dall’altro lato, una spinta vigorosa verso un’emancipazione a tutto tondo, dal piano delle relazioni affettive a quello dei rapporti di classe che manifestano le più crude contraddizioni in una metropoli tentacolare del subcontinente indiano.
Prabha è una donna sposata che però non ha mai fatto esperienza di una vita coniugale: conosce il marito direttamente in occasione delle giornate del loro matrimonio combinato; e poco dopo lui parte per lavorare in una fabbrica in Germania, sparendo improvvisamente dalla vita di Prabha, così come vi era apparso.
Anu invece è una giovanissima infermiera che si innamora di un ragazzo musulmano con cui ha una relazione che deve tenere nascosta non solo alla famiglia (che nel frattempo sta combinando anche il suo di matrimonio) ma anche alle amiche e alle colleghe. Parvaty invece è una donna matura, vedova e sola che rischia lo sfratto.
Il fulcro della narrazione è Prabha, il nodo che tiene legate queste storie per il senso di amicizia e protezione che nutre nei confronti delle altre due, spesso sacrificando se stessa.
Ma in questo film non si parla solo di questo; si esplora una realtà che è divisa tra i sentimenti e le aspirazioni personali e la condizione oggettiva dell’essere donne e proletarie, in un mondo dove non soltanto non è espressa l’emancipazione affettiva e sessuale delle donne, dove sui pullman e sui treni ci sono i vagoni “ladies only“, dove ancora esiste la segregazione religiosa – ma anche un mondo in cui può esistere una forte solidarietà, dove ai cambiamenti e alle ingiustizie è possibile reagire.
Una geografia umana fatta di milioni di proletari e sottoproletari sottoposti ad ogni tipo di angheria e privazione materiale ma anche una forte tradizione di organizzazione politica e sociale – entrambi aspetti che per noi, attraverso la lente occidentale, sono difficili da afferare e comprendere.
La storia di Parvaty per esempio è la storia legata agli storici scioperi dei cotonofici di Mumbai di inizio anni 80. Viene sfrattata dal suo piccolo appartamento perché non riesce a trovare le prove della legittimità della sua residenza lì. Il marito è morto e Parvaty non trova i documenti che dimostrino che quella casa era stata loro assegnata in seguito alla chiusura improvvisa e disastrosa del complesso industriale dei cotonofici di Mumbai: circa 80 impianti chiusi negli anni 80 che avevano lasciato circa 150 mila disoccupati.
Nonostante Parvaty si convinca a tornare al suo villaggio di origine e lasciarsi alle spalle la sua vita a Mumbai, insieme a Prabha partecipa a un’assemblea politica partecipata da uomini e donne di tutte le età, in cui si rivendica la necessità della lotta e della riappropriazione di quanto i padroni sottraggono ai lavoratori.
I dettagli che emergono dalle inquadrature nel film permettono al sottofondo di emergere e diventare parte del racconto. La notte come il giorno non è mai completamente buia e oscura ma è un continuo andirivieni di luce e ombre, un susseguirsi di luci che rincorrono la frenesia di una città che non dorme mai. Ma allo stesso tempo la macchina riesce a posarsi sugli oggetti e le cornici di vita quotidiana fatte da arredamenti sguarniti, poveri e pesanti del vissuto faticoso di chi li utilizza.
Per le strade di Mumbai si percepiscono gli odori delle folle accalcate alle feste religiose di strada, dello smog del traffico, degli scarichi della frutta al mercato – e così si avverte anche la consistenza al tatto del naan mangiato al chiosco o dei piselli sgusciati in treno da una signora anziana mentre attorno è pieno di pendolari che tornano a casa.
Un bollore continuo di una umanità che è costretta a correre e ingannare il tempo ma che sa fermarsi per cucire i rapporti e le relazioni con se stessa, con gli altri, con il mondo e la natura.
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