Ogni anno, milioni di spettatori assistono all’Eurovision Song Contest come a un grande rituale europeo di inclusività, spettacolo e fratellanza tra popoli.
Ma dietro le luci, le coreografie e i buoni sentimenti, l’Eurovision è anche – e forse soprattutto – un sofisticato prodotto dell’industria culturale, perfettamente integrato nella logica di un mercato che parla ai “popoli” e al “pop” ma che non riguarda la cultura “popolare”, intesa come la cultura di e per tutti e tutte.
La cultura oggi tende a essere mercificata: non esiste più come espressione collettiva e di rottura, ma come intrattenimento funzionale al profitto.
L’Eurovision incarna perfettamente questo modello: è un evento costruito per il consumo televisivo globale, dove le canzoni devono rispettare format precisi, essere catchy, non troppo politiche, emozionanti ma compatibili con la neutralità dell’intrattenimento.
Nonostante la retorica dell’unione tra i popoli europei, l’Eurovision è tutto tranne che un laboratorio di “internazionalismo”. I paesi con più risorse mediali dominano la scena e sono evidenti le disuguaglianze economiche tra i partecipanti.
Anche quest’anno poi Israele partecipa all’Eurovision, nonostante il genocidio a Gaza e in Palestina.
L’emittente israeliana KAN è stata nuovamente ammessa e la sua rappresentante porta un messaggio che giustifica i crimini contro i palestinesi.
E la European Broadcasting Union (EBU) continua a usare due pesi e due misure: esclude alcuni paesi per motivi politici ma fa un’eccezione per Israele. Chissà perché…
Al contrario, vediamo decine di eurodeputati che hanno firmato una lettera per chiederne l’esclusione e centinaia di musicisti, ex partecipanti e migliaia di fan che si uniscono all’appello: fuori Israele dall’Eurovision.
Anche l’inclusività – vero punto di forza del contest – merita una lettura critica.
L’Eurovision è celebrato per la sua apertura verso le soggettività LGBTQIA+ e per la visibilità data da artisti provenienti da “minoranze culturali”, tuttavia anche questa inclusività è condizionata dall’assimilazione ai codici del mainstream.
Si tratta di una logica capitalistica della “diversità” – da loro intesa – compatibile con la logica dello show-business e del profitto, che dietro un pink-rainbowashing non mette mai in discussione i ruoli sociali e di genere, l’ordine economico o lo status quo.
La cultura viene quindi neutralizzata nella spettacolarizzazione, le libere soggettività diventano decorazione, brand identity.
Lungi dall’essere uno spazio neutro, l’Eurovision contribuisce a costruire un senso comune in cui queste logiche di mercato appaiono naturali, inevitabili, persino desiderabili.
La musica diventa gara, l’identità diventa brand, la cultura diventa prodotto. In questo quadro, la funzione critica dell’arte viene spenta, e la cultura popolare si trasforma in uno spettacolo che distrae piuttosto che liberare.
Criticare l’Eurovision non significa disprezzare la musica pop o l’intrattenimento di massa.
Significa, al contrario, difendere un’idea più alta di cultura: una cultura che non sia merce, che non sia solo consumo, ma strumento di coscienza, di comunità e di lotta. Una cultura davvero popolare.
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