Crescono le voci del mondo pacifista, dal fondatore di Emergency Gino Strada al segretario della Fiom, Maurizio Landini, ai sindacati di base (Usb, Cobas, ecc). Crescono quindi anche le manifestazioni di protesta, indette dalle forze di sinistra (Rete dei comunisti, Sinistra critica, Rifondazione, Sinistra popolare, ecc) sia a Roma che in altre città (oggi a Pisa, a lle 17,30).
L’obiettivo dell’operazione, ammette anche Sergio Romano, editorialista del Corriere della sera ed ex ambasciatore italiano a Mosca, non è affatto la “protezione dei civili”, ma l’abbattimaneto del regime di Gheddafi. E quindi questa è la quarta guerra in dieci anni scatenata dall’imperialismo occidentale contro paesi arabi.
La Lega Araba, che pure aveva chiesto una no fly zone, sta ora criticando gli attacchi: “avevamo chiesto di proteggere i civili, non di bombardarne altri”. L’Unione africana, invece, contraria già da prima a ogni intervento e favorevole a una mediazione, nnon si è neppure presentata al vertice di Parigi.
Sul fronte di guerra, gli Usa sembrano aer tirato un attimo il fiato, mentre Gran Bretagna e Francia continuano a colpire sia obiettivi militari che civili. Le immagini tv che arrivano anche dai media occidentali presenti a Tripoli non lasciano infatti alcun dubbio. Da sottolineare l’uso massiccio di missili Tomahawk, lanciati da navi e sottomarini, in alcuni casi vietati dalla stessa Nato perché contenenti alti quantitativi di uranio impoverito. I nostri lettori potranno leggere in questo sito la chiarissima analisi scientifica elaborata ieri dal Prof. Massimo Zucchetti, docente di impianti nucleari al Politecnico di Torino.
Proprio l’uso di Tomahawk smantella l’argomento-chiae degli interbentisti: “proteggere icivili”. Se si spargono tonnellate di uranio impoverito su tutta la Libia (anche nella zona di Bengasi sono stati effettuato bombardamenti per fermare le forze di terra di Gheddafi), si creano le condizioni per rendere invivibile buona parte del territorio per decine di anni. Si avvelena il futuro di intere generazioni a venire, che subiranno un incremento esponenziale di malattie tumorali (nello studio di Zucchetti ci sono anche le estrapolazioni statistiche nei vari “scenari”).
Tutti questi attacchi, insomma, non hanno nulla a che fare con l”imposizione di una no fly zone”. Sono stati infatti presi di mira mezzi blindati (privi di capacità contraerea, strutture amministrative, il bunker di Gheddafi, strutture portuali e petrolifere, persino ospedali e naturalmente molte abitazioni civili.
Lo ammette anche l’ammiraglio americano Mike Mullen, capo degli Stati maggiori riuniti Usa: «la prima ondata di attacchi ha permesso di stabilire la no-fly zone sulla Libia. Ora comincia la seconda fase quella che prevede l’attacco alle forze di rifornimento delle truppe del Colonnello Gheddafi». Cosa c’entri tutto questo con l’impedire agli aerei libici di alzarsi in volo, resta un mistero glorioso.
Un portavoce della Csa Bianca, in visibile imbarazzo davanti alle domande dei giornalisti, ha difeso l’intervento in Libia e non altrove, come il Bahrein, dicendo che “le due situazioni non sono paragonabili”. Ma senza spiegare in cosa. Silenzio assoluto, infine, sul fatto che il Bahrein sia stato invaso da truppe saudite, che hanno partecipato in prima persona alla repressione delle manifestazioni.
Non ci sarà uno scudo Nato per l’operazione militare in Libia: l’alleanza metterà a disposizione mezzi e strutture, ma non la bandiera. I paesi della “coalizione dei volenterosi” – ha detto a Rio de Janeiro il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Tom Donilon – sono d’accordo a non dare il comando delle operazioni alla Nato, ma di sfruttarne le strutture. La dichiarazione di Donilon sgombra il campo dalle incertezze di queste giorni sul ruolo dell’organizzazione atlantica, che alcuni paesi europei (tra i quali il Belgio, la Gran Bretagna e l’Italia) avrebbero voluto in prima linea, e che altri – in particolare la Francia – ritenevano non dovesse essere tale. Troppo rischioso, secondo i francesi, impegnare l’ombrello Nato – sotto il quale 46 paesi combattono Al Qaida da dieci anni in Afghanistan – in un ambiente socio-politico esplosivo come quello nord africano. E anche il capo del pentagono Robert Gates ha riconosciuto che potrebbero esservi resistenze da parte dei Paesi della Lega Araba a prendere parte a operazioni militari sotto l’egida dell’Alleanza atlantica. La partecipazione di paesi arabi e africani alla coalizione internazionale è invece per tutti una priorità, in particolare dopo le perplessità espresse dall’Unione africana e dalla stessa Lega araba dopo le conseguenze dei primi raid.
La Turchia ha chiesto infatti di rivedere la pianificazione per la no fly-zone alla luce delle perdite civili che i raid in corso potrebbero provocare. La delegazione turca ha chiesto nel pomeriggio una sospensione dei lavori per potere consultarsi con Ankara. La riunione, ripresa alle 22.30, è terminata senza chiarire i dubbi della Turchia. Il Consiglio atlantico tornerà a riunirsi anche oggi. Sarà l’occasione per prendere atto dell’annuncio arrivato dal Brasile, che toglie alla Nato ogni ambizione di guida delle operazioni, ma le riconosce di essere l’unica organizzazione che può mettere in campo, in tempi molto rapidi, mezzi, strutture e know how militari.
Ultimm’ora: gli Usa sembrano volersi sfilare dall’intervento, o almeno cercare di non apparire il perno centrale delle forz attaccanti. Hanno infatti annunciato che passeranno «nei prossimi giorni» il comando dell’operazione a francesi ed inglesi. Il presidente Obama non vuole infatti appesantire i compiti strategici delle forze armate statunitensi, già impegnate in due conflitti. Il Segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, ha giustificato una simile scelta chiamando in causa la «sensibilità» araba verso un altro intervento dell’Alleanza Atlantica nel mondo musulmano. Insomma: quattro guerre americane contro paesi islamici in dieci anni non sono un buon biglietto da visita per chi pretende di gestire le sorti di quella parte del mondo. Che se la vedano gli europei, dunque, che sono pure più direttamente interessati al petrolio libico.
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