Anche se a Tunisi e soprattutto a Sidi Bouzid, la città agricola nel centro della Tunisia da cui è partito tutto, quell’espressione coniata dalla stampa non piace. «Preferiamo chiamarla la rivoluzione del 17 dicembre, che è il giorno in cui Mohamed si è dato fuoco».
Incontriamo Manoubia e sua figlia Leila in un ristorante, poco distante dalla sua nuova casa alla Marsa di Tunisi. È stato un diplomatico tunisino a darle una mano per affittarla. Ora, oltre a lei, vivono qui il suo attuale marito, fratello del padre di Mohamed, e i suoi altri tre figli. L’intera famiglia è stata ricevuta dal segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon durante la sua recente visita: «Un grande onore – dice Manoubia -, mi ha fatto le condoglianze e mi ha detto di considerarmi fortunata, perché il gesto di mio figlio ha aperto gli occhi di molta gente».
Nel frattempo a Sidi Bouzid si uccideva un altro ragazzo. Si chiamava Khaled Ezzafouri ed era anche lui un disoccupato. Si è dato fuoco in un parco della città, per protestare proprio contro Ban Ki Moon, reo di aver snobbato la rivoluzione nel momento in cui avveniva. Due giorni dopo, l’intera Sidi Bouzid è tornata in strada, davanti al Palazzo del Governo, per reclamare e ottenere le dimissioni del prefetto.
Un avamposto dimenticato
Sidi Bouzid, a tre mesi dalla rivoluzione di cui è stata l’epicentro, resta un avamposto rurale, per lo più dimenticato. «Adesso, almeno, abbiamo la libertà» sorride Hassib Omri, uno dei ragazzi che la rivoluzione l’hanno fatta. Parla sei lingue, tra cui un ottimo italiano. Spiega i motivi che lo hanno costretto a fare il giro d’Europa: «Qui a Sidi Bouzid siamo 410 mila – spiega – e non c’è nessuno che possa dirsi benestante». Secondo uno studio condotto lo scorso anno dall’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt), il tasso di povertà in questa provincia rurale è di oltre il 12%. La disoccupazione tra i laureati maschi raggiunge il 25%, dieci punti percentuali in più rispetto al dato nazionale. E le giovani laureate se la passano anche peggio: quelle senza lavoro sono circa il 45%, mentre la media nazionale è del 20%. Eppure, nonostante l’emarginazione e la mancanza di risorse, il tasso di istruzione è tra i più alti in Tunisia.
Un paradosso sublimato dall’esperienza di Bouazizi, che aveva dovuto lasciare gli studi per guadagnarsi da vivere. Una rivolta personale, che si è presto trasformata in rivoluzione.
La vicenda di Mohamed è ormai leggenda. «Per sbarcare il lunario cercava di vendere frutta e verdura senza il permesso – racconta Hassib -. Poi, una sera, una poliziotta lo ha schiaffeggiato pubblicamente dopo avergli confiscato il carretto. Mohamed non ce l’ha fatta più. È andato davanti alla prefettura, si è versato addosso la benzina e ha acceso un fiammifero». Nel vecchio quartiere di el-Nour, i muri della vecchia casa dove Mohamed abitava sono coperti di graffiti. «Qui si ferma il mondo, grazie ai ragazzi di el-Nour», recita uno slogan su una parete. Povere case, ora meta di giornalisti provenienti da tutto il mondo. Si narra di facoltosi uomini d’affari che avrebbero offerto cifre da capogiro per avere il leggendario carretto di Mohamed. La famiglia ha sempre detto di no.
Manoubia ricorda poco di quel giorno di tre mesi fa, che le ha strappato un figlio di 26 anni, dando il via a una tempesta rivoluzionaria che ha investito l’intero mondo arabo e ancora non si placa. Le hanno impedito di vederlo, fino al 4 gennaio, quando è morto, dopo 18 giorni di agonia. «Il 17 dicembre era sorridente – dice, trattenendo a stento le lacrime – è l’ultimo ricordo che ho di Mohamed». Il suo volto ora è esposto nella piazza centrale di Sidi Bouzid, assieme a quello degli altri martiri della rivoluzione. Le loro tombe sono ospitate nel cimitero di Graa Benour, a pochi chilometri da Sidi Bouzid. Accanto a quella di Mohamed il governo Ghannouchi ha fatto piantare una bandiera nazionale. Prima di rassegnare anch’esso le dimissioni dopo le proteste di febbraio a Tunisi.
A due mesi di distanza dalla fuga di Ben Ali, il 14 gennaio scorso, anche qui ferve il lavoro per costruire una Tunisia nuova. «C’è un comitato rivoluzionario locale – spiega Hassib -, è costituito da 18 membri e si occupa di convocare assemblee e organizzare proteste. Molte informazioni vengono condivise su Facebook, che è stato uno degli strumenti più importanti della rivoluzione». Eppure molti restano scettici di fronte a queste riunioni. «Non si giunge mai a nulla – obbietta Maher – e in questo momento è praticamente inesistente anche una struttura locale dei partiti che parteciperanno alle elezioni il prossimo 24 luglio». Lo spettro della Rcd, insomma, cui erano iscritti circa metà dei 10 milioni di tunisini, continua ad aleggiare, nonostante il suo scioglimento per legge. E sono pochi i movimenti che tentano di tessere una nuova ragnatela politica su base locale. Tra questi c’è il partito Al Nahdha, il movimento islamico «della Rinascita», guidato dall’ex esule Rachid Al Ghannouchi. «Loro hanno una aperto una sede qui a Sidi Bouzid – ancora Maher – ma non so che tipo di supporto potranno avere in una città sostanzialmente laica come questa».
«Non ho mai capito molto di politica – confida Manoubia – ma il mio auspicio è che la situazione a Sidi Bouzid e nel resto della Tunisia torni presto alla normalità. Che i ragazzi tornino a lavorare e a ricostruire questo paese nuovo, democratico, che appartiene a ognuno di loro». Una speranza che, purtroppo, sembra ancora di là da venire. Chi può, oggi, cerca di scappare verso la costa, per imbarcarsi alla volta di Lampedusa. E poi ci sono i suicidi, che continuano a mietere giovani vite, come quella di Khaled Ezzafouri. «Tutto questo mi addolora come madre – dice Manoubia – io so cosa significhi perdere un figlio in quel modo. Voglio lanciare un appello a tutti i giovani tunisini: non buttate più via le vostre vite. Abbiamo avuto troppi morti, causati dal vecchio regime e dai criminali della polizia di Ben Ali, per i quali nutro solo odio. Ora è il momento di scegliere la vita». «Spero che il governo che verrà non sia più corrotto» dice Faycel Negi, fratello di Houcine, il secondo martire della città di Sidi Bouzid, morto dopo essersi lanciato sui cavi dell’alta tensione, il 22 dicembre. Alla sua famiglia il nuovo governo ha inviato 20 mila dinari e una promessa, quella di tirarli fuori da povertà e disoccupazione. Ma a Faycel non basta: «Non saranno i soldi a restituirmi mio fratello – dice amaro – e in ogni caso non è migliorando la situazione di una sola famiglia che si risolvono i problemi della Tunisia. Bisogna abbattere la disoccupazione che affligge tutti i giovani. Houcine avrebbe voluto così».
Entusiasmi «privati»
Oggi, nell’entusiasmo del dopo-rivoluzione, qualche risposta sembra giungere dai privati. Una società di capitale americano, la Mass Corporation, pare voglia costruire un cementificio a risparmio energetico proprio nella provincia di Sidi Bouzid. Investimenti per circa 300 milioni di euro e oltre 1.500 nuovi posti di lavoro. A questi potrebbero sommarsene altri mille, grazie a una società tedesca, il Gruppo Leoni, che produce cavi e componenti auto. E offre già lavoro a circa 12 mila persone nei suoi stabilimenti di Sousse, Biserta e Ben Arous. Inoltre la più grande azienda lattiero-casearia tunisina vuole realizzare un impianto nella provincia madre della rivoluzione.
I problemi che restano sul tavolo, tuttavia, non sono pochi. C’è quello legato alla sanità, ad esempio. «Quasi mezzo milione di abitanti è servito da appena 45 medici specialisti» spiega Chiheb Mihoub. Ventisette anni, studente, oggi gestisce un’associazione di volontariato che proprio nel settore sanitario è riuscita ad ottenere dei primi importanti risultati: “Grazie al contributo dei privati – spiega – siamo riusciti a far ricoverare gratuitamente, in alcune cliniche private di Tunisi, molti dei feriti durante la rivoluzione. Non avrebbero mai potuto permetterselo prima». Oggi, almeno la solidarietà è tornata ad essere un bene comune.
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