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Assad, nel nome del padre

Se nell’incalzare degli eventi e delle ribellioni di Maghreb e Mashreq molti media, il caso di Al Jazeera è il più illustre, hanno svolto funzioni di orientamento occulto delle masse e disorientamento talvolta manipolatorio dell’informazione, pur fra le già ricordate difficoltà di chi commenta a distanza non possiamo disconoscere fatti né leggere sempre ogni cosa con le lenti della dietrologia.

Certo dopo settimane dall’avvio di una guerra civile in Libia l’attacco militare Nato ha palesato la volontà del colonialismo di ritorno franco-britannico (l’Italia ha una particina poco meno che servile) di farsi scudo del ruolo di paladino d’una democrazia affaristica per rilanciare propri interessi sui giacimenti di Tripolitania e Cirenaica. Ne è scaturita l’ingerenza aggressiva verso una nazione sovrana prima che contro il suo quarantennale leader. Giorno dopo giorno abbiamo appreso come gli anti Gheddafi siano foraggiati da Cia, Dgse e Sas che giocano la propria partita per la riuscita del disarcionamento del raìs. Lui resta un dittatore ormai lontano dagli intenti dell’iniziale Rivoluzione verde, ma risulta rinvigorito da questi ultimi attacchi occidentali. Grazie a essi il colonnello ha potuto circondarsi non solo di fedelissimi interessati a una continuità del regime per garantire a se stessi privilegi o un semplice lavoro, ha guadagnato credibilità agli occhi d’una fascia di popolo che s’è visto aggredito. Potere dall’imperialismo guerrafondaio.

L’ondata di proteste che sta sconvolgendo la Siria può avere l’odore di ribellione pilotata, Assad junior e i fidati collaboratori denunciano un complotto. L’ipotesi può essere più d’una semplice congettura, lo rivelava l’onnivedente WikiLeaks riferendo le intenzioni di Saad Hariri e re Abdullah di sgambettare Bashar. La situazione siriana è comunque complessa e, al pari di quella libica, ruoli e responsabilità della leadership verso la popolazione andrebbero distinti dall’alibi di essere nel mirino dell’imperialismo statunitense ed europeo sempre pronti a sanzionare e destabilizzare i Paesi giudicati non amici o “malvagi”. In base a tali considerazioni è giusto fare dei distinguo e ricordare l’essenza dell’ennesima dinastia-presidenziale del Medioriente. Gli Assad dall’ipotizzato progressismo socialisteggiante del partito Baath hanno di fatto incarnato un autoritarismo securitario di stampo clanistico non proprio aperto agli interessi popolari. Hafiz prima, Bashar ora in epoche diverse hanno trattato i siriani da sudditi, preferendo la repressione sanguinaria al dialogo. Commentatori e analisti di svariato orientamento (citiamo un paio d’interventi: Trombetta, Il clan Al Assad alla prova della piazza, in I Quaderni speciali di Limes anno 3 n. 2 e Mokhtar Shingiti, Libertà e settarismo in Siria, in www.medarabnews.com del 20/4/2011) convergono nel giudicare la rete sociale da loro plasmata come una struttura chiusa e settaria. Il laicismo statale trova un compromesso fra la minoranza alawita, cui la famiglia appartiene, e fasce della maggioranza sunnita sia cittadine sia delle zone rurali entrate in rapporto strutturale con la cerchia dei presidenti-padroni.

Esercito, Guardia Repubblicana, Mukhabarat e Intelligence sono pilastri di questa struttura statale che rappresenta un potere concreto direttamente controllato dal gruppo Assad. E il personalismo proposto dalle due figure è diventato, decennio dopo decennio, soffocante. Non è un caso che il ricambio politico sia vissuto sotto lo stesso tetto ben oltre il mito, piuttosto costruito dall’ex ufficiale dell’aeronautica, di “padre” della Siria moderna. Nonostante la recente soppressione della legge d’emergenza durata 48 anni prontamente sostituita con una sul “terrorismo”, uno degli elementi di confronto tuttora assente nella nazione è la competizione politica oggettivamente aperta. Alcune componenti d’opposizione sono appena tollerate in elezioni che in genere si risolvono in un plebiscito d’assenso al partito Baath e dunque alla famiglia. Naturalmente c’è una buona fetta della popolazione, forse ancor’oggi maggioritaria, attorno a questo partito e al gruppo di potere che gli offre consenso. Il Baath ha cementato al sistema almeno due generazioni siriane tramite i conflitti esterni reali e latenti vissuti dall’epoca della Guerra dei Sei giorni. Eppure le famose Alture del Golan, ancora occupate dal nemico israeliano, non hanno più conosciuto scontri dalla guerra del Kippur, sebbene il confronto con Tsahal (cui i militari damasceni di formazione sovietica davano filo da torcere) e con la leadership sionista negli anni Ottanta sia vissuto a danno della nazione libanese che Israele e Siria avrebbero volentieri fagocitato.

Dopo le centinaia di vittime è plausibile che per le strade di Daraa s’aggirino salafiti armati. La componente sunnita, politicamente moderata o fondamentalista, non è mai stata amata dagli Assad, il braccio di ferro del 1982 con la Fratellanza Musulmana provocò i massacri di Hama (ufficialmente 20.000 morti, altre fonti ne contano quasi il doppio). Sebbene i conti con la Storia possono farsi anche negli anni le ipotesi di revanche confessionali sono  scarse, come poco attinente al diffuso laicismo nazionale è l’idea di una libanizzazione del potere su base religiosa che invece si fa strada nel dissestato Iraq. Per un conflitto civile generalizzato bisognerà vedere se si creerà una spaccatura negli stessi apparati di sicurezza finora controllati dagli Assad. Di contro l’opposizione divisa fra malcontento sociale, civile ed etnico può venire aggirata dalla scaltrezza presidenziale che può usare il frazionamento a suo vantaggio. Se poi nelle piazze siriane siano attivi anche agenti dei Servizi occidentali per tentare di destabilizzare il governo non c’è da meravigliarsi. C’erano a piazza Taharir e altrove ma la loro azione non è stata determinante. Più preoccupante potrebbe  risultare l’assenza di una guida progressista nella ribellione popolare siriana. Al tempo stesso il regime va valutato in base a quello che mostra e ciò che ha fatto. Poiché fra i vessilli che tuttora sventola c’è la resistenza all’imperialismo e al sionismo e il sostegno alla causa palestinese di cui beneficiano alcuni leader islamici di Hamas (come Meshaal riparato a Damasco dall’epoca del suo tentato avvelenamento attuato dal Mossad) è bene ricordare anche le pagine nere che si chiamano Tel al Zaatar.

Nel campo profughi di Beirut est i palestinesi massacrati (tremila, quattromila? come per Sabra e Chatila la cifra esatta non s’è mai saputa) conobbero il peso dell’artiglieria siriana che cogestìva i 53 giorni del massacro maronita. Forse la conservazione della dinastia presidenziale degli Assad può far piacere agli attori più vari. Non solo la Repubblica Islamica Iraniana o la Turchia, che nelle mire di dominio regionale non vedono di buon occhio le rivolte seppur ipocritamente le lodano, ma i fautori del congelamento medioriente: Israele, Arabia Saudita e il microcosmo conservatore delle monarchie del Golfo loro sì diretti e protetti da Casa Bianca e Pentagono.

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