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Le donne saudite guidano la protesta

 
 
Nove giorni di carcere, intimidazioni, pressioni della famiglia. Alla fine la giovane attivista saudita Manal Sharif ha rinunciato alla battaglia che proprio lei, sull’onda delle proteste che da mesi scuotono il mondo arabo, aveva avviato per permettere alle donne del suo paese di guidare l’automobile. Arrestata il mese scorso dalla muttawa, la potente e onnipresente polizia religiosa, per essere stata trovata alla guida di un’auto nella città di Khobar e rilasciata dopo aver firmato un impegno a non infrangere più le leggi del regno, Manal era stata fermata di nuovo il giorno dopo per aver deciso di tornare al volante. Aveva anche diffuso su Youtube un video, e soprattutto aperto una pagina su Facebook, per chiedere alle saudite di condurre la propria auto il prossimo 17 giugno, allo scopo di spingere la famiglia reale ad abrogare il divieto di guida per le donne. Al giornale al-Hayat Manal Sharif, 32 anni, consulente di sicurezza informatica, ha spiegato di «non essere altro che una donna musulmana e saudita impegnata nell’accontentare il suo Signore e ascoltare il proprio paese». «Continuerò a fare solo questo – ha aggiunto – e chiedo ad Allah di permettermi di seguire saldamente la strada del Corano, della Sunna e del monoteismo». È una resa totale ma sarebbe ingiusto condannare la giovane che molti già chiamavano la Rosa Parks saudita, accostandola all’attivista nera americana che nel 1955 rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco. In carcere è stata dura per lei. Ma il seme sta germogliando.

«Guiderò a partire dal 17 giugno». È la parola d’ordine lanciata sui social network da un gruppo di saudite che esorta le connazionali a mettersi al volante, infrangendo il simbolo delle discriminazioni gravissime che le donne subiscono in un regno che, grazie alle ingenti riserve petrolifere e all’alleanza con l’Occidente (e in particolare con gli Usa) può permettersi di violare convenzioni internazionali e di negare diritti fondamentali ai suoi cittadini, senza pagarne le conseguenze. Accade, ad esempio, che l’Australia chieda all’Onu di spedire il presidente siriano Bashar Assad davanti al Tribunale penale internazionale, ma rimanga in silenzio davanti al sistema repressivo in Arabia saudita, proprio come fanno gli altri stati occidentali «sostenitori dei processi democratici in corso nel mondo arabo». Eppure in Arabia saudita è vietata ogni forma di organizzazione politica e sindacale o di società civile più strutturata.
Nel regno della stretta alleanza tra la famiglia Saud e il clero wahabita, la patente – così come il voto (nonostante le promesse, le donne non parteciperanno alle amministrative di settembre) e la possibilità di un lavoro indipendente – è ancora preclusa alla popolazione femminile. Una donna non può spostarsi nel paese o viaggiare all’estero senza un mahram (tutore), quasi sempre un familiare stretto. La separazione dei sessi è ferrea e così le donne non possono svolgere diversi lavori che le porterebbero a contatto con la popolazione maschile. Leggi e norme che hanno ben poco a che fare con l’islam e molto con tradizioni tribali della penisola arabica che vanno indietro nei secoli. Contro tutto ciò non sono mancate le mobilitazioni di migliaia di sauditi nelle scorse settimane, ma il massiccio spiegamento delle forze di sicurezza ha impedito che i raduni potessero svilupparsi e diventare ampie manifestazioni contro il regime, come in altri paesi arabi. La monarchia Saud ha poi assunto il ruolo di forza «controrivoluzionaria» nel Golfo, al punto da inviare a marzo – evidentemente con l’assenso degli alleati americani – una spedizione armata a sostegno del sovrano del Bahrain messo sotto pressione dal locale movimento per la democrazia. Sono insistenti inoltre le voci di interferenze saudite in Egitto e in Siria.
A Riyadh però non si spegne la fiamma accesa da Manal Sharif. Il tam tam della manifestazione del 17 giugno si diffonde in rete. Molti sono convinti che in ogni caso «andrà bene», anche se il governo deciderà la strada della repressione. «Il fatto di organizzarsi e agire come un movimento è qualcosa che le donne saudite hanno imparato dalle rivolte in corso nel mondo arabo e cominciano a non avere più paura», spiega Wajeeha al-Howeider, un’attivista per i diritti umani. E le donne non sono spaventate dalle minacce di «severe punizioni» da parte di gruppi non meglio precisati di uomini, con ogni probabilità agenti dei servizi di sicurezza. Stando a quanto si legge in internet e sui giornali locali, «migliaia» di sauditi si starebbero attrezzando per andare a «frustare» le donne che oseranno infrangere il divieto di guidare. La chiamano la «campagna dell’iqal», dal nome della corda usata dagli sauditi per cingere il loro copricapo. Ma i promotori della «punizione esemplare» non riscuotono sufficienti simpatie. Molti uomini li condannano. Lo scrittore Abdo Khal, sulle pagine del quotidiano Okaz, ha criticato duramente il divieto di guidare per le donne e ha scritto di non sapere, riguardo alla campagna degli «uomini fustigatori», se sia meglio «ridere o piangere».
Nei giorni scorsi è giunto un altro segnale, piccolo ma significativo. La principessa Adila, la più giovane delle figlie di re Abdullah, ha deciso di abbandonare il niqab – il velo che lascia scoperti solo gli occhi – e ha scelto l’hijab, il foulard che mostra tutto il viso. A molti in Occidente apparirà una cosa di poco conto ma il passo fatto dalla principessa è stata accolto con favore negli ambienti femminili sauditi. «Il niqab – ha spiegato Adila – non c’entra con la religione musulmana. È una questione di tradizione e null’altro». La principessa saudita in passato si era detta contraria anche al divieto per uomini e donne di frequentare insieme luoghi pubblici. Piccole luci che il 17 giugno potrebbero cominciare a illuminare le strade del paese.
da “il manifesto” del 2 giugno 2011

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