Sheikh Hamid al Ahmar, leader della tribù degli Hashid, nega di essere coinvolto nel ferimento del suo avversario, il presidente Ali Abdallah Saleh, avvenuto ieri durante l’improvviso bombardamento contro il palazzo presidenziale a Sanaa e la moschea attigua. Arrivare a chi ha tentato di uccidere o di «avvisare» Saleh, non sarà facile. Nello Yemen sempre più vicino al baratro di una guerra civile totale è arduo distinguere le verità dalle menzogne di coloro che stanno portando il paese alla distruzione. L’unica certezza è la folle ostinazione di Saleh, che si aggrappa al potere da 33 anni.
Ieri all’alba nuovi pesanti scontri armati erano ripresi a Sanaa, dopo una breve tregua e all’indomani di violenti combattimenti tra le forze governative e i miliziani dei clan tribali. E mentre la capitale si è trasformata nuovamente in un campo di battaglia, le forze di sicurezza fedeli al presidente hanno aperto il fuoco per disperdere manifestanti nella città sud-occidentale di Taiz, uno degli epicentri delle proteste contro Saleh. I morti sono stati almeno due. Fonti dell’opposizione hanno riferito che 50 yemeniti sono stati uccisi questa settimana negli scontri con i militari. Di fronte all’aggravarsi della situazione, la Casa bianca non è andata oltre l’auspicio che lo scontro tra governo ed opposizione venga risolto con calma e attraverso i negoziati. Tommy Vietor, un portavoce del presidente Obama, ha detto: «Abbiamo visto le notizie e siamo molto preoccupati per le violenze in Yemen… chiediamo calma e moderazione a tutte le parti e siamo convinti che la disputa debba essere risolta attraverso negoziati». Washington continua ad usare i guanti di velluto con Saleh e si guarda dal chiederne l’immediata uscita di scena. Da parte loro le monarchie e gli emirati del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) si sono detti disponibili a portare avanti la mediazione per una soluzione della crisi e quindi di riprendere l’iniziativa, «congelata» lo scorso 22 maggio dopo che il presidente yemenita, per l’ennesima volta, si era rifiutato di accettare il piano che prevede le sue dimissioni.
Proprio in risposta a quel rifiuto era sceso in campo con le armi lo sceicco Hamid al Ahmar, spiega l’arabista ed esperta di cooperazione internazionale Isadora D’Aimmo, rientrata da poco da Sanaa. «E’ stato uno sviluppo di grande importanza – dice – lo sceicco Hamid è il capo della potente federazione tribale degli hashidi, alla quale è affiliata la tribù dello stesso Saleh, ed è arrivato a Sanaa coi suoi uomini che hanno attaccato e occupato alcune sedi cruciali del governo. Gli scontri si stanno estendendo anche in altre zone a nord-nordovest di Sanaa, e il quadro complessivo è assai incerto». Hamid al Ahmar, agginge D’Aimmo, appartiene ad una famiglia importante nella politica yemenita. È figlio del defunto Abdallah Ibn Husayn al-Ahmar, capo supremo degli hashidi, figura di spicco nella rivoluzione che determinò la fine del regno degli imam, nonché promotore e sostenitore di Saleh. Hamid è considerato l’ideatore della coalizione di opposizione, il JMP, e la guida dell’opposizione tribale. Gli obiettivi dello sceicco tuttavia sono ben diversi dal movimento per la democrazia. Al-Ahmar appartiene alla struttura del potere e il suo fine, evidentemente, è quello di arrivare al vertice dello Yemen.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa