Molti in realtà si aspettano che l’assenza di Saleh sarà l’occasione per forzare una «transizione», e questo ieri gli Stati uniti lo hano detto chiaro: «Pensiamo che una immediata transizione sia nel migliore interesse del popolo yemenita», ha detto la segretaria di stato Hillary Clinton. Intanto però corre voce che nel palazzo presidenziale si sia insediato il figlio di Saleh con i suoi seguaci, esautorando di fatto il vicepresidente Hadi che, come vuole la costituzione, ha assunto i poteri. Tra intrighi militari e scontri tra clan rivali, migliaia di persone continuano a manifestare per non vedere cancellate le loro richieste di cambiamento.
Prese domenica le redini del governo, il vicepresidente Hadi ha subito incontrato l’ambasciatore Usa a Sana’a per discutere le possibili vie di uscita dalla crisi e la necessità che tutte le forze politiche convergano «nell’interesse del paese». Hadi ha quindi rivolto un appello alle truppe filopresidenziali e alle milizie tribali dello sceicco Sadiq al-Ahmar (secondo fonti ufficiali responsabili del cannoneggiamento del palazzo presidenziale di venerdì scorso, in cui Saleh è rimasto ferito e alcune guardie del corpo uccise) perché fermino gli scontri nella capitale. A Sana’a intanto l’agenzia di stampa Afp riferisce da fonti tribali che ieri le truppe governative hanno ucciso tre seguaci dello sceicco al-Ahmar, benché si fosse detto disponibile alla tregua.
Sempre l’Afp fa sapere che nel palazzo presidenziale di Sana’a si è insediato il figlio di Saleh, il generale di brigata Ahmed, comandante della guardia repubblicana e delle forze speciali, lasciando a casa il vicepresidente Hadi. Nella notte tra sabato e domenica Ahmed, insieme a fratelli e cugini (che occupano le più alte cariche nell’esercito e nei servizi di sicurezza), avrebbe tenuto una riunione a porte chiuse per esautorare Hadi e mantenere il potere in previsione del ritorno di Saleh.
Eppure molti ormai parlano di fine dell’era Saleh. Il politologo saudita Khalid al-Dakhil ritiene che il presidente yemenita non sarebbe mai partito per l’Arabia Saudita se non avesse voluto cercare una via di uscita. «Il portavoce del parlamento, il primo ministro e il presidente sono qui; questo faciliterà Saleh nel preparare la sua uscita di scena». Lo stesso regno saudita, sostiene il giornalista yemenita a Washington Munir al-Mawri, «non permetterà a Saleh di tornare in Yemen perché tiene ai suoi interessi nel paese».
La fase di transizione rischia tuttavia di essere intorbidita dai complotti militari. La prima alternativa è un governo provvisorio guidato dal vicepresidente, che già ha ricevuto messaggi di collaborazione dall’opposizione parlamentare e dal Comitato organizzativo della rivolta popolare. Una via ostacolata dalle rivalità in seno alla tribù degli Hashid e dalla famiglia al-Ahmar che ne fa parte (a cui appartiene anche il presidente Saleh). Anzitutto i figli e nipoti del presidente, rimasti in Yemen nelle loro alte cariche militari. In secondo luogo l’ambizione del fratellastro di Saleh, il generale Ali Mohsen al-Ahmar, comandante della prima divisione armata e, secondo Wikileaks, il militare più potente del paese. È stato lui il primo ufficiale a disertare le truppe governative per schierarsi con la rivolta, trascinando con sé le sue truppe; un tempo fedele alleato di Saleh, le loro relazioni si sono incrinate per le sue ambizioni e la sua insofferenza all’autorità del figlio del presidente. Al punto che nel 2009 Saleh avrebbe chiesto senza successo all’Arabia Saudita (che bombardava le postazioni militari dei ribelli sciiti yemeniti lungo le zone di confine) di colpire il complesso in cui si trovava il rivale, nel nord. Infine c’è il ramo dissidente della famiglia al-Ahmar, guidato da Sadiq e da suo fratello Hamid al-Ahmar.
La guerra tribale rischia di strumentalizzare il movimento popolare. Ma in diverse città le proteste continuano – ieri ci sono stati nuovi scontri nella città di Taiz .
Prese domenica le redini del governo, il vicepresidente Hadi ha subito incontrato l’ambasciatore Usa a Sana’a per discutere le possibili vie di uscita dalla crisi e la necessità che tutte le forze politiche convergano «nell’interesse del paese». Hadi ha quindi rivolto un appello alle truppe filopresidenziali e alle milizie tribali dello sceicco Sadiq al-Ahmar (secondo fonti ufficiali responsabili del cannoneggiamento del palazzo presidenziale di venerdì scorso, in cui Saleh è rimasto ferito e alcune guardie del corpo uccise) perché fermino gli scontri nella capitale. A Sana’a intanto l’agenzia di stampa Afp riferisce da fonti tribali che ieri le truppe governative hanno ucciso tre seguaci dello sceicco al-Ahmar, benché si fosse detto disponibile alla tregua.
Sempre l’Afp fa sapere che nel palazzo presidenziale di Sana’a si è insediato il figlio di Saleh, il generale di brigata Ahmed, comandante della guardia repubblicana e delle forze speciali, lasciando a casa il vicepresidente Hadi. Nella notte tra sabato e domenica Ahmed, insieme a fratelli e cugini (che occupano le più alte cariche nell’esercito e nei servizi di sicurezza), avrebbe tenuto una riunione a porte chiuse per esautorare Hadi e mantenere il potere in previsione del ritorno di Saleh.
Eppure molti ormai parlano di fine dell’era Saleh. Il politologo saudita Khalid al-Dakhil ritiene che il presidente yemenita non sarebbe mai partito per l’Arabia Saudita se non avesse voluto cercare una via di uscita. «Il portavoce del parlamento, il primo ministro e il presidente sono qui; questo faciliterà Saleh nel preparare la sua uscita di scena». Lo stesso regno saudita, sostiene il giornalista yemenita a Washington Munir al-Mawri, «non permetterà a Saleh di tornare in Yemen perché tiene ai suoi interessi nel paese».
La fase di transizione rischia tuttavia di essere intorbidita dai complotti militari. La prima alternativa è un governo provvisorio guidato dal vicepresidente, che già ha ricevuto messaggi di collaborazione dall’opposizione parlamentare e dal Comitato organizzativo della rivolta popolare. Una via ostacolata dalle rivalità in seno alla tribù degli Hashid e dalla famiglia al-Ahmar che ne fa parte (a cui appartiene anche il presidente Saleh). Anzitutto i figli e nipoti del presidente, rimasti in Yemen nelle loro alte cariche militari. In secondo luogo l’ambizione del fratellastro di Saleh, il generale Ali Mohsen al-Ahmar, comandante della prima divisione armata e, secondo Wikileaks, il militare più potente del paese. È stato lui il primo ufficiale a disertare le truppe governative per schierarsi con la rivolta, trascinando con sé le sue truppe; un tempo fedele alleato di Saleh, le loro relazioni si sono incrinate per le sue ambizioni e la sua insofferenza all’autorità del figlio del presidente. Al punto che nel 2009 Saleh avrebbe chiesto senza successo all’Arabia Saudita (che bombardava le postazioni militari dei ribelli sciiti yemeniti lungo le zone di confine) di colpire il complesso in cui si trovava il rivale, nel nord. Infine c’è il ramo dissidente della famiglia al-Ahmar, guidato da Sadiq e da suo fratello Hamid al-Ahmar.
La guerra tribale rischia di strumentalizzare il movimento popolare. Ma in diverse città le proteste continuano – ieri ci sono stati nuovi scontri nella città di Taiz .
da “il manifesto” del 7 giugno 2011
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa