Anche sui numeri sembrano agli antipodi: il pil greco quest’anno cadrà come minimo del 5-6%, il pil cileno crescerà del 5%. Anche se il pil non è tutto, la differenza è grande.
Eppure c’è qualcosa che accomuna la Grecia e il Cile in questi mesi e in questi giorni. E non solo il concomitante sciopero generale. Il dato comune è la crisi che attanaglia entrambi. Se l’economia è globale, anche la crisi è globale, al di là delle specificità locali.
In Cile, da sei mesi, gli studenti sono in lotta e in strada per chiedere un cambio radicale del sistema educativo, classista-pinochettista che, come tutto il resto delle fondamenta imposte da Pinochet, 21 anni dopo la sua uscita di scena (e dopo 20 anni di asfittici governi di centro-sinistra), in sostanza reggono ancora il paese, lo Stato, l’economia, la società. Ora gli studenti, prima i liceali poi gli universitari, hanno dato uno choc a un paese anchilosato e impaurito da ogni scalfittura dell’ «ordine» costituito e della «legalità» classista.
In Cile l’istruzione è di alto livello. Quella privata e carissima. La Universidad Católica e la Universidad de Chile sono considerate di caratura internazionale. Ma carissime ed esclusive. In Cile solo il 45% degli studenti delle secondarie va alle scuole pubbliche. Pessime, povere, senza soldi, con salari da fame per gli insegnanti. La maggior parte di licei e università è privata e ha fra gli obiettivi istituzionale quello di «fare profitti». Nel ricco e «moderno» Cile, vige l’ «apartheid educativa». Gli studenti la rifiutano e vogliono un’istruzione «pubblica, gratuita e di qualità», per tutti. Troppo per l’iper-miliardario e destrorso presidente Piñera, che offre qualche «riforma» miserabile e 4 miserabili miliardi di dollari supplementari per l’educazione. Ma rifiuta categoricamente che lo Stato si faccia carico dell’istruzione pubblica e gratuita. La sua risposta è stata quella di mandare al Congresso una nuova legge contro chi occupa scuole e atenei (da 1 a 3 anni) e riesumare la vecchia «Legge di sicurezza dello Stato», una sorta di Legge Reale in salsa cilena (da 3 a 15 anni), per colpire i manifestanti che disturbano «l’ordine pubblico».
Ma gli studenti non si fermeranno più. Le loro richieste in questi 6 mesi si sono ampliate. La fine dell’ordine pinochettista che ancora attanaglia il paese, la fine di quelle diseguaglianze di cui il Cile vanta il record quasi-mondiale, la fine della privatizzazione della società (a cominciare dalle pensioni).
Fino all’impossibile che invece improvvisamente appare possibile e necessario: un’assemblea costituente che cancelli l’obbrobriosa costituzione imposta da Pinochet nel 1980 e che, salvo qualche maquillage, è ancora lì. L’aspetto più entusasmante della scossa data dagli studenti cileni è che sembrano aver svegliato l’intero corpo sociale: il sindacato – la Cut – li appoggia e li segue, la classe media scende in strada per i cacerolazos e, mentre il rating di Piñera cade ai minimi storici (è al 20%), l’80% della popolazione è con loro.
Eppure c’è qualcosa che accomuna la Grecia e il Cile in questi mesi e in questi giorni. E non solo il concomitante sciopero generale. Il dato comune è la crisi che attanaglia entrambi. Se l’economia è globale, anche la crisi è globale, al di là delle specificità locali.
In Cile, da sei mesi, gli studenti sono in lotta e in strada per chiedere un cambio radicale del sistema educativo, classista-pinochettista che, come tutto il resto delle fondamenta imposte da Pinochet, 21 anni dopo la sua uscita di scena (e dopo 20 anni di asfittici governi di centro-sinistra), in sostanza reggono ancora il paese, lo Stato, l’economia, la società. Ora gli studenti, prima i liceali poi gli universitari, hanno dato uno choc a un paese anchilosato e impaurito da ogni scalfittura dell’ «ordine» costituito e della «legalità» classista.
In Cile l’istruzione è di alto livello. Quella privata e carissima. La Universidad Católica e la Universidad de Chile sono considerate di caratura internazionale. Ma carissime ed esclusive. In Cile solo il 45% degli studenti delle secondarie va alle scuole pubbliche. Pessime, povere, senza soldi, con salari da fame per gli insegnanti. La maggior parte di licei e università è privata e ha fra gli obiettivi istituzionale quello di «fare profitti». Nel ricco e «moderno» Cile, vige l’ «apartheid educativa». Gli studenti la rifiutano e vogliono un’istruzione «pubblica, gratuita e di qualità», per tutti. Troppo per l’iper-miliardario e destrorso presidente Piñera, che offre qualche «riforma» miserabile e 4 miserabili miliardi di dollari supplementari per l’educazione. Ma rifiuta categoricamente che lo Stato si faccia carico dell’istruzione pubblica e gratuita. La sua risposta è stata quella di mandare al Congresso una nuova legge contro chi occupa scuole e atenei (da 1 a 3 anni) e riesumare la vecchia «Legge di sicurezza dello Stato», una sorta di Legge Reale in salsa cilena (da 3 a 15 anni), per colpire i manifestanti che disturbano «l’ordine pubblico».
Ma gli studenti non si fermeranno più. Le loro richieste in questi 6 mesi si sono ampliate. La fine dell’ordine pinochettista che ancora attanaglia il paese, la fine di quelle diseguaglianze di cui il Cile vanta il record quasi-mondiale, la fine della privatizzazione della società (a cominciare dalle pensioni).
Fino all’impossibile che invece improvvisamente appare possibile e necessario: un’assemblea costituente che cancelli l’obbrobriosa costituzione imposta da Pinochet nel 1980 e che, salvo qualche maquillage, è ancora lì. L’aspetto più entusasmante della scossa data dagli studenti cileni è che sembrano aver svegliato l’intero corpo sociale: il sindacato – la Cut – li appoggia e li segue, la classe media scende in strada per i cacerolazos e, mentre il rating di Piñera cade ai minimi storici (è al 20%), l’80% della popolazione è con loro.
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Giorgio Jackson*
L’analisi
Il movimento cileno va veloce
Da oltre cinque mesi tutte le rivendicazioni del movimento studentesco in Cile sono state articolate sulla disuguaglianza che impera nel paese. La disuguaglianza, intesa come suo perdurare, è stato l’epicentro che ci ha permesso di far emergere lo scontento rimasto latente in ampi settori della società e che non si esprimeva in forma aperta a causa di un autocompiacente discorso delle autorità di governo.
Una volta presentate le richieste di settore, ancorate all’idea che sono quelle giuste a causa del perdurare delle disuguaglianze, il processo è iniziato arrivando, insieme alla cittadinanza tutta, a toccare problemi di fondo. Inizialmente non si è affrontato un dibattito costituzionale che non sarebbe stato compreso e che avrebbe richiesto un processo di apprendimento, della società in generale e nostro in particolare.
Dalla nostra iniziale domanda di accesso a educazione, finanziamento e democratizzazione, siamo arrivati all’esplicita richiesta di cambiamenti costituzionali. Nel corso di questo processo sono venute alla luce le contraddizioni del sistema politico cileno, i suoi limiti e le sue incapacità, ma anche il potenziale del movimento e dei giovani per cambiare tutto questo. È stato un processo intenso, non privo di problemi, ma tremendamente illuminante.
Una richiesta caduta su un terreno fertile. Quando è emersa la Revolución pingüina (Rivoluzione dei pinguini) c’era un governo di Concertazione che, pur amministrando lo stesso modello, aveva una sintonia e un linguaggio che gli ha permesso di neutralizzare e gestire sia il movimento che il malcontento. Ora siamo arrivati al cuore delle contraddizioni perché c’è un governo non in sintonia per un dialogo con la cittadinanza. Anzi, è un governo che si mostra orgoglioso di ciò che pensa ed è duro su questa posizione ideologica, cosa logica dato che ne fanno parte i creatori intellettuali dell’attuale modello.
Le colpe del governo
Durante la Concertazione era facile che governanti e autorità dessero la colpa al sistema politico, all’ostruzionismo dell’opposizione di destra che non votava le riforme e usava l’argomento per decomprimere la pressione sociale, mentre nascondeva la sua mancanza di convinzione e coraggio per cambiamenti fuori «dalla politica dei consensi». Oggi il governo non ha nessuno da incolpare, anche perché tutto il potere è nelle sue mani. Ciò permette che la pressione sociale si concentri sullo stesso punto: la disuguaglianza del sistema. Ma questo rende il movimento più ambizioso, meno settoriale, più politico e le richieste diventano trasversali.
Le riforme richieste dal movimento studentesco presuppongono necessariamente più e miglior democrazia. Lo abbiamo già visto il 4 agosto scorso, quando abbiamo presentato una riforma tributaria per ottenere risorse che finanziassero le nostre richieste, o quando sondavamo l’idea di un referendum che permettesse alla cittadinanza di partecipare. Il governo ha risposto con la repressione arrivando così al cuore della contraddizione del sistema. Tutto questo porta a farci carico delle trasformazioni più profonde di cui il Cile ha bisogno. Noi giovani dobbiamo progettare questo movimento a medio e lungo termine e, pertanto, renderci partecipi di questa costruzione della società, partecipando attivamente ai distinti processi politici che si avvicinano. Con più democrazia e partecipazione.
La richiesta di più e miglior democrazia è venuta crescendo ed è ampiamente condivisa, tanto dal movimento studentesco quanto da altri movimenti sociali. Il forte appoggio alle richieste e alla mobilitazione degli studenti per l’educazione pubblica comprende anche la domanda di un cambiamento del sistema elettorale e la fine del bipartitismo. Si apre così un ampio spazio di convergenza democratica. Questa istituzionalità non è larga, è una camicia di forza, la cittadinanza crede che la classe politica non risponda più agli interessi del popolo, quindi la nostra domanda viene condivisa dalla stessa cittadinanza, sottolineando la necessità di liberarsi di questa camicia.
Abbiamo la volontà politica di raccogliere la forza necessaria ai cambiamenti e perché il movimento non passi alla storia come uno tra i tanti. Il nostro senso strategico ha messo in evidenza lo sgretolamento delle attuali alleanze politiche, quella del governo e dell’opposizione. Ciò potrà permettere al nostro progetto di mettere ordine in questo spazio, se non proprio occuparlo.
La velocità dei tempi
Se negli anni ’60 la riforma universitaria tardò ad arrivare, oggi i tempi sono più veloci rendendo i cambiamenti più profondi e rapidi. Di fatto già stanno accadendo. Si sta rompendo la frontiera del possibile, si è in movimento. Il senso comune sta cambiando. L’individualismo – «io lavoro per dare un’educazione ai miei figli e pago per questo», come diceva molta gente – ha lasciato il passo a concezioni più collettive, dove si costituisce una maggioranza sociale che cerca un’educazione di qualità per tutti, dove lo Stato e «il pubblico» – che in questi tempi è di nessuno – torni ad essere di tutti. Sarà un grande cambiamento che si tradurrà in maggior partecipazione politica. Comincerà a vedersi riflesso nelle richieste della cittadinanza alle autorità, comprese quelle locali, e ai candidati nel momento in cui faranno le loro «offerte». È quanto accadrà, perché il punto di curvatura che abbiamo vissuto ha lasciato la democrazia più viva che mai. Il popolo sta partecipando.
All’interno del movimento studentesco e nelle sue istanze siamo cresciuti, maturati, e nonostante le differenze e le discrepanze spesso evidenti, c’è diversità in un progetto comune, dove prima di posizioni individuali o di gruppo c’è il collettivo. È una garanzia per quanto abbiamo detto e fatto, e speriamo anche per il futuro. Non si vede come tutto questo possa essere fermato. Anche se i cambiamenti prenderanno tempo, sono già in atto. Il trincerarsi del governo a difesa dei suoi principi ideologici generà solo ulteriore malcontento e malessere nella cittadinanza, cosa che non smetterà di manifestarsi nei conflitti che verranno, nelle congiunture politiche che si apriranno, e anche nei processi elettorali.
Questa mobilitazione, con la destra contro, come la lotta di Davide contro Golia, ha generato unità nella diversità, ha imposto il senso collettivo del movimento e la sua indipendenza. Un processo che ormai è impossibile fermare.
*Presidente della Federazione studentesca dell’Università cattolica, Feuc (www.feuc.cl) e Dirigente della Confech
(articolo pubblicato nell’edizione cilena di Le Monde Diplomatique
www.lemondediplomatique.cl
Una volta presentate le richieste di settore, ancorate all’idea che sono quelle giuste a causa del perdurare delle disuguaglianze, il processo è iniziato arrivando, insieme alla cittadinanza tutta, a toccare problemi di fondo. Inizialmente non si è affrontato un dibattito costituzionale che non sarebbe stato compreso e che avrebbe richiesto un processo di apprendimento, della società in generale e nostro in particolare.
Dalla nostra iniziale domanda di accesso a educazione, finanziamento e democratizzazione, siamo arrivati all’esplicita richiesta di cambiamenti costituzionali. Nel corso di questo processo sono venute alla luce le contraddizioni del sistema politico cileno, i suoi limiti e le sue incapacità, ma anche il potenziale del movimento e dei giovani per cambiare tutto questo. È stato un processo intenso, non privo di problemi, ma tremendamente illuminante.
Una richiesta caduta su un terreno fertile. Quando è emersa la Revolución pingüina (Rivoluzione dei pinguini) c’era un governo di Concertazione che, pur amministrando lo stesso modello, aveva una sintonia e un linguaggio che gli ha permesso di neutralizzare e gestire sia il movimento che il malcontento. Ora siamo arrivati al cuore delle contraddizioni perché c’è un governo non in sintonia per un dialogo con la cittadinanza. Anzi, è un governo che si mostra orgoglioso di ciò che pensa ed è duro su questa posizione ideologica, cosa logica dato che ne fanno parte i creatori intellettuali dell’attuale modello.
Le colpe del governo
Durante la Concertazione era facile che governanti e autorità dessero la colpa al sistema politico, all’ostruzionismo dell’opposizione di destra che non votava le riforme e usava l’argomento per decomprimere la pressione sociale, mentre nascondeva la sua mancanza di convinzione e coraggio per cambiamenti fuori «dalla politica dei consensi». Oggi il governo non ha nessuno da incolpare, anche perché tutto il potere è nelle sue mani. Ciò permette che la pressione sociale si concentri sullo stesso punto: la disuguaglianza del sistema. Ma questo rende il movimento più ambizioso, meno settoriale, più politico e le richieste diventano trasversali.
Le riforme richieste dal movimento studentesco presuppongono necessariamente più e miglior democrazia. Lo abbiamo già visto il 4 agosto scorso, quando abbiamo presentato una riforma tributaria per ottenere risorse che finanziassero le nostre richieste, o quando sondavamo l’idea di un referendum che permettesse alla cittadinanza di partecipare. Il governo ha risposto con la repressione arrivando così al cuore della contraddizione del sistema. Tutto questo porta a farci carico delle trasformazioni più profonde di cui il Cile ha bisogno. Noi giovani dobbiamo progettare questo movimento a medio e lungo termine e, pertanto, renderci partecipi di questa costruzione della società, partecipando attivamente ai distinti processi politici che si avvicinano. Con più democrazia e partecipazione.
La richiesta di più e miglior democrazia è venuta crescendo ed è ampiamente condivisa, tanto dal movimento studentesco quanto da altri movimenti sociali. Il forte appoggio alle richieste e alla mobilitazione degli studenti per l’educazione pubblica comprende anche la domanda di un cambiamento del sistema elettorale e la fine del bipartitismo. Si apre così un ampio spazio di convergenza democratica. Questa istituzionalità non è larga, è una camicia di forza, la cittadinanza crede che la classe politica non risponda più agli interessi del popolo, quindi la nostra domanda viene condivisa dalla stessa cittadinanza, sottolineando la necessità di liberarsi di questa camicia.
Abbiamo la volontà politica di raccogliere la forza necessaria ai cambiamenti e perché il movimento non passi alla storia come uno tra i tanti. Il nostro senso strategico ha messo in evidenza lo sgretolamento delle attuali alleanze politiche, quella del governo e dell’opposizione. Ciò potrà permettere al nostro progetto di mettere ordine in questo spazio, se non proprio occuparlo.
La velocità dei tempi
Se negli anni ’60 la riforma universitaria tardò ad arrivare, oggi i tempi sono più veloci rendendo i cambiamenti più profondi e rapidi. Di fatto già stanno accadendo. Si sta rompendo la frontiera del possibile, si è in movimento. Il senso comune sta cambiando. L’individualismo – «io lavoro per dare un’educazione ai miei figli e pago per questo», come diceva molta gente – ha lasciato il passo a concezioni più collettive, dove si costituisce una maggioranza sociale che cerca un’educazione di qualità per tutti, dove lo Stato e «il pubblico» – che in questi tempi è di nessuno – torni ad essere di tutti. Sarà un grande cambiamento che si tradurrà in maggior partecipazione politica. Comincerà a vedersi riflesso nelle richieste della cittadinanza alle autorità, comprese quelle locali, e ai candidati nel momento in cui faranno le loro «offerte». È quanto accadrà, perché il punto di curvatura che abbiamo vissuto ha lasciato la democrazia più viva che mai. Il popolo sta partecipando.
All’interno del movimento studentesco e nelle sue istanze siamo cresciuti, maturati, e nonostante le differenze e le discrepanze spesso evidenti, c’è diversità in un progetto comune, dove prima di posizioni individuali o di gruppo c’è il collettivo. È una garanzia per quanto abbiamo detto e fatto, e speriamo anche per il futuro. Non si vede come tutto questo possa essere fermato. Anche se i cambiamenti prenderanno tempo, sono già in atto. Il trincerarsi del governo a difesa dei suoi principi ideologici generà solo ulteriore malcontento e malessere nella cittadinanza, cosa che non smetterà di manifestarsi nei conflitti che verranno, nelle congiunture politiche che si apriranno, e anche nei processi elettorali.
Questa mobilitazione, con la destra contro, come la lotta di Davide contro Golia, ha generato unità nella diversità, ha imposto il senso collettivo del movimento e la sua indipendenza. Un processo che ormai è impossibile fermare.
*Presidente della Federazione studentesca dell’Università cattolica, Feuc (www.feuc.cl) e Dirigente della Confech
(articolo pubblicato nell’edizione cilena di Le Monde Diplomatique
www.lemondediplomatique.cl
da “il manifesto” del 20 ottobre 211
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