A neanche una settimana dalla partecipatissima manifestazione di Pasqua per l’Aberri Eguna – il Giorno della Patria – che ha invaso le strade di Pamplona, ieri pomeriggio a Bilbao decine di migliaia di baschi sono scesi di nuovo in piazza. Questa volta per dire basta alla persecuzione dei prigionieri politici e alla cosiddetta ‘Dottrina Parot’, un meccanismo aberrante che da alcuni anni permette ai magistrati di prolungare le condanne degli imputati che abbiano già scontato la loro pena. In nome della loro presunta pericolosità sociale, sulla base della discrezionalità dei giudici e senza processo.
Nonostante la pioggia decine di migliaia di persone hanno attraversato le strade del centro di Bilbao raccogliendo l’appello delle forze politiche che integrano l’accordo di Gernika – sinistra indipendentista, EA, Aralar, Alternatiba – e delle associazioni che si battono per la difesa dei diritti dei quasi 700 baschi e basche rinchiusi nelle prigioni di Francia e Spagna. La marcia è stata convocata contro una sentenza del Tribunale Costituzionale che ribadisce la legittimità della ‘Dottrina Parot’, dopo che questa negli anni scorsi era stata invece negata in altri gradi di giudizio.
Ad aprire il lungo serpentone uno striscione che recitava “Salbuespenezko neurriak indargabetu. Konponbide garaia da” (E’ tempo di soluzioni. Disattivare le leggi di emergenza) portato da alcuni ex prigionieri politici ai quali è stato applicato l’arbitrario allungamento della condanna previsto dalla ‘Dottrina Parot’, approvata dal Tribunale Supremo nel febbraio del 2006 modificando la modalità di conteggio delle condanne al carcere imposte ai reclusi per motivi politici. Da quel momento, la riduzione di pena in virtù dei benefici penitenziari si applica ad ognuna delle sentenze di condanna per ciascuna imputazione, e non sul massimo di anni di carcerazione – 30 – consentiti dalla legge. Introducendo di fatto, surrettiziamente, il carcere a vita, che teoricamente non è previsto nel Codice Penale spagnolo.
La sentenza di sostegno alla ‘dottrina Parot’ – che prende il nome da Unai Parot, il prigioniero basco al quale fu applicata per la prima volta – viene considerata dai partiti nazionalisti e di sinistra, così come dai maggiori sindacati baschi presenti ieri alla manifestazione, come un attacco al processo di pace in corso. Sulla scalinata del Municipio di Bilbao, dove si è conclusa la marcia, Jone Artola di Etxerat (associazione di sostegno ai prigionieri politici) e Isabel Castro del sindacato ESK hanno letto un comunicato in euskera e in castigliano denunciando che la sentenza del tribunale costituzionale del 29 marzo trasforma la ‘dottrina Parot’ in una legge di emergenza basata su criteri di vendetta e configurando così un attacco diretto ai desideri di pace del Popolo Basco. Le due portavoce hanno avvertito che lo Stato Spagnolo continua a perpetuare un blocco e uno scontro frontale che rischia di mandare in frantumi ogni opportunità offerta dal processo di pace faticosamente difeso dalle organizzazioni politiche e popolari di Euskal Herria. Il comunicato finale ha ricordato che se lo Stato Spagnolo applicasse semplicemente le sue leggi più di un terzo dei prigionieri politici baschi, 214, dovrebbero tornare subito in libertà: quelli condannati sulla base della dottrina Parot, quelli a cui è stata negata la libertà condizionata nonostante abbiano scontato i 2/3 o i ¾ della pena, quelli affetti da patologie gravi incompatibili con il regime carcerario.
La grande manifestazione di ieri fa seguito a quella colossale che invase Bilbao lo scorso 7 gennaio: a pochi giorni dall’insediamento del governo di destra di Mariano Rajoy a Madrid, circa 120.000 persone manifestarono a sostegno dei prigionieri politici baschi in una delle manifestazioni più massicce mai realizzate dalla morte del dittatore Francisco Franco.
Ma il regime spagnolo non sembra affatto in procinto di voler intraprendere un ammorbidimento delle leggi speciali varate in questi anni contro i movimenti politici e sociali baschi. Anzi. Nelle ultime settimane i ministri di Rajoy sono impegnati nel varo di una pesante controriforma del codice penale che mira a colpire quei giovani, quei lavoratori e quei cittadini che denunciano con sempre maggiore determinazione le politiche autoritarie e liberiste dell’esecutivo impegnato nel taglio di decine di miliardi di euro allo stato sociale, al lavoro, all’istruzione, alla sanità. La massiccia risposta popolare che ha caratterizzato lo sciopero generale del 29 marzo sembra aver convinto i poteri forti ad accelerare una riforma penale che di fatto estenderà a tutto lo Stato Spagnolo quelle leggi speciali e d’emergenza finora applicate nel solo Paese Basco in nome della “lotta al terrorismo”. Scomparse le azioni armate dell’ETA, a preoccupare politici, imprenditori e magistrati è una sempre più estesa insorgenza sociale, che prende di mira banche, istituzioni pubbliche e rappresentanti politici. Così nei giorni scorsi il ministro degli Interni, Jorge Fernández Díaz, ha annunciato l’inasprimento delle pene già previste per chi viene arrestato durante manifestazioni non autorizzate, blocchi stradali, picchetti sindacali. In preparazione c’è il nuovo e aberrante reato di “resistenza passiva alle autorità”. Diventerebbero così punibili e con condanne severe anche la partecipazione ai sit in e a forme pacifiche di denuncia, così come la resistenza passiva esercitata nei casi di blocchi stradali, ‘sentadas’ davanti a sedi politiche o istituzionali e altre tradizionali forme di protesta poco più che simboliche. Come se non bastasse, il governo Rajoy vuole introdurre anche il reato di diffusione su internet di materiale ‘violento e che incita alla destabilizzazione dell’ordine pubblico’. Pubblicizzare su siti, blog e social network manifestazioni o proteste che non abbiano ricevuto l’autorizzazione da parte delle autorità di Pubblica Sicurezza sarebbe considerato un reato. Una sorta di repressione preventiva che mira a evitare che le strade delle città spagnole, ed in particolare quelle dei territori tradizionalmente più conflittuali, si riempiano di manifestanti determinati a non farsi relegare in casa dalle sempre più odiate forze di sicurezza.
Negli ultimi mesi gli interventi violenti della Polizia contro manifestazioni in diversi territori dello Stato si sono fatti sempre più numerosi e indiscriminati. Dalle cariche contro gli studenti a Valencia, a quelle contro gli indignados a Madrid, dagli assalti con lacrimogeni e pallottole di gomma in decine di città lo scorso 29 marzo all’aggressione contro gli avventori dei bar di Bilbao lo scorso 5 aprile. In quest’ultimo episodio un giovane di 28 anni, Inigo Cabacas, è stato ucciso da una pallottola di gomma che lo ha colpito alla testa da pochi metri; c’è mancato poco che ci scappasse il morto anche in altri due episodi precedenti, uno a Pamplona e l’altro a Barcellona durante lo sciopero generale. A fare le spese dell’uso indiscriminato delle pallottole di gomma da parte dei Mossos d’Esquadra catalani sono stati anche due italiani residenti a Bacellona, di 26 e 36 anni, rimasti gravemente feriti ad un occhio. Oltre a decine di manifestanti le palle di caucciù che i poliziotti sparano abitualmente ad altezza d’uomo e a distanza ravvicinata hanno ferito anche alcuni giornalisti e pompieri. I sanitari hanno denunciato costole rotte, un polmone perforato, teste spaccate e persino un bambino di quattro anni ferito alla coscia. Le istituzioni dell’Unione Europea hanno più volte raccomandato a Madrid di smettere di usare un’arma letale contro manifestanti inermi. Ma c’è da giurare che una classe dirigente delegittimata e traballante non rinuncerà tanto facilmente a utilizzare queste ed altre armi.
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