* Tel Aviv, 26 maggio 2012, Nena News
“Stupratori di bambine e vecchie, assassini, ladri, accoltellatori, scassinatori. Abbiamo paura di uscire da casa. Noi siamo diventati una minoranza nel quartiere, i sudanesi ormai sono la maggioranza. L’unico modo per svegliare le autorità è che i cittadini del sud di Tel Aviv colpiscano gli stranieri fisicamente. Non voglio che questo accada, ma non c’è scelta. Non penso che la violenza sia la risposta. Ma non ci guardano. Una volta ero dalla parte dei sudanesi, ho perfino dato loro vestiti, ma ora è troppo. Ho paura di andare al supermercato alle sette di sera. Noi non dobbiamo soffrire tutte le malattie del mondo qui nel nostro quartiere». A parlare, sulle pagine di HaAretz, è Carmela Rozner un’abitante del quartiere meridionale HaTikva di Tel Aviv da diversi mesi al centro della violenta protesta contro gli “infiltrati”, o come più volte “gentilmente” chiamati, “sudanesi”. Poco importa che non tutti vengano da Khartum o da Juba. Sono “neri”, “immigrati irregolari” e “stupratori”, “non ebrei” per cui che senso ha per molti israeliani distinguerli? Sono gli stessi che ogni giorno sono in attesa sul ciglio delle strade periferiche della città per essere “arruolati” per una giornata di lavoro da qualche caporale israeliano per una manciata di shekel. Sono gli stessi che ogni giorno stazionano in massa nella totale indifferenza e degrado vicino alla vecchia centrale Levinsky a pochi passi dal ricco Boulevard Rothschild, ironia della sorte centro della protesta sociale della scorsa estate. Ma tra i residenti a sud di Tel Aviv, a Levinsky, in quartieri come HaTikva, Shapira lontano dalla movida israeliana, cova da tempo un malessere profondo contro gli immigrati spesso sfociato in manifestazioni razziste.
Qualche giorno fa caccia all’infiltrato
Una drammatica escalation contro i richiedenti asilo che è culminata due giorni fa con un linciaggio: lunotti di macchine di proprietà di “sudanesi” distrutti, violenza e caccia all’“infiltrato” sui piccoli bus che sfrecciano per Tel Aviv. Ma queste vergognose scene erano soltanto il logico corollario degli attacchi verbali razzisti ascoltati durante la manifestazione indetta nel Shuq HaTikava contro «gli infiltrati e le organizzazioni di aiuto che li sostengono». Tra gli organizzatori i deputati della Knesset Michael Ben Ari dell’Unione Nazionale (sempre in prima fila nel suo odio contro gli “arabi”) e gli attivisti di destra Itamar Ben Gvir e Baruch Merzel, quest’ultimo direttore del gruppo dall’inquietante nome “Guardia del quartiere” fondato nel sud di Tel Aviv. «L’Africa non è qui», «Sudanesi tornate nel Sudan», «Diritti dell’uomo non a spese del piccolo cittadino» e «Basta parlare, incominciare a cacciare» a cui hanno fatto seguito i racconti di “stupri”, delle “violenze” dei “furti” ad opera dei richiedenti asilo. Paura verso l’ “Altro”, psicosi collettiva, razzismo e pogrom finale fascista. Il linguaggio violento contro gli immigrati è lo stesso che spesso qui è utilizzato ogni giorno contro gli “arabi” interni e contro i palestinesi. Il muro, la necessità della “barriera” come unica difesa dal Nemico. «La situazione è spaventosa, HaTikva è satura.
La gente parla davvero con dolore, perché la situazione è davvero spaventosa. Sono tutto il giorno a bere alcol» ha raccontato ad HaAretz Shagit Pinchas, una manifestante. Non è riuscita a iscrivere sua figlia all’asilo, perché la maggior parte degli studenti sono sudanesi. «Perché non c’è una giusta divisione? Perché per mia figlia non c’è posto in asilo e per loro sì? Bisogna costruire una barriera subito e chi si trova qui deve prendere la via del ritorno». Le scene si sono ripetute mercoledì sera ma questa volta non solo a Tel Aviv, ma anche ad Eilat, Ashdod, Ashkelon e a Bnei Brak. Ma il centro delle proteste è stato ancora una volta Tel Aviv dove hanno sfilato più di mille persone nei quartieri a sud della città. Preso di mira il governo ed un ironico manifesto ritraeva Netaniahu con una bandiera eritrea. La colpa del governo di destra, secondo gli abitanti di HaTikva, è quella di non aver usato il pugno duro contro i “sudanesi”, anzi, di aver contribuito al loro ingresso nel paese esacerbando così la situazione di “paura” e “insicurezza” che si respira nei quartieri meridionali della città. E pensare che molti di coloro che protestano contro gli immigrati erano presenti in piazza Rabin qualche settimana fa per gridare che il «popolo è uno, rivoluzione» e «vogliamo giustizia sociale». Le loro difficoltà, la “trascuratezza del governo” era stata addirittura assurta a simbolo del disagio sociale ed economico delle classi subalterne israeliane durante la protesta del «99% dei cittadini“.
La risposta della sinistra non parlamentare
Anche la stampa israeliana si è interrogata sulle violenze degli ultimi giorni. C’è stato chi, come il popolare quotidiano filogovernativo Yisrael HaYom, nel giudicare legittimo protestare (e secondo il giornale giusto condannare la presenza dei richiedenti asilo in Israele, degli attivisti di sinistra che li sostengono e delle varie organizzazioni umanitarie che promuovono le “infiltrazioni”) ha espresso una flebile condanna al “linciaggio”. Ma nessuno sulla stampa locale ha voluto utilizzare una parola spesso tabù in Israele: fascismo. L’hanno provato a farlo gli attivisti di sinistra ieri sera. Erano alcune centinaia a sfilare dalla stazione centrale di Tel Aviv a Levinsky (cuore della presenza dei richiedenti asilo a Tel Aviv) alla centralissima King George. Tra i manifesti si poteva leggere: «Siamo tutti rifugiati», «Siamo tutti cittadini, tutti esseri umani», «Liberman, Ben Ari, Netaniahu, razzisti, noi vi cacceremo via!».
C’è chi, come gli Anarchici contro il muro ha provato a collegare il dramma degli immigrati con la situazione altrettanto drammatica palestinese: «Soldi ai quartieri non alle colonie». Ma a mancare all’appello in King George erano proprio gli “infiltrati” rimasti nei giardini della trascurata Levinsky. Le scene delle aggressioni xenofobe erano ancora nei loro occhi, la paura di essere cacciati di giorno in giorno sempre più concreta. C’è chi, come Orit Arom dell’Associazione Assaf (Organizzazione d’aiuto per i rifugiati e richiedenti asilo in Israele), prova a spiegare perché la gente di HaTikva è contro di loro. «Loro non sono contro di voi, ma contro il governo che non li ascolta, che li trascura». Parole quasi giustificatorie verso quelle violenze, argomentazioni poco convincenti per chi vive da tempo con il timore, con la sensazione di essere “rifiutato” e che ha soprattutto visto la sua famiglia in pericolo di vita. «Ho paura», ci ha confessato Alì un giovane sudanese, «Quello che è successo ieri non va bene… Non ho lavoro, gli ebrei non me lo danno. Ogni giorno tiro avanti. Manifestare? A che serve. E’ meglio di no..io non ci vado». Altri, scusandosi perché non vogliono parlare, si raccolgono in gruppi provando a confrontarsi. Ma la diffidenza resta. Sotto un albero un manifestante anziano israeliano e un ragazzo eritreo provano a conoscersi. «Cosa ci capiterà secondo lei?” chiede il giovane impaurito dal buon inglese. «Non lo so, ma temo che vi cacceranno. Anche diversi anni fa le cose andarono così. C’era una numerosa comunità di africani, poi le violenze dalla parte della gente del posto, gli arresti della polizia..e la grande paura..Tutti decisero di tornare a casa». Ecco tornare a casa, nei propri luoghi d’origine. Ma a che prezzo? E a quali rischi?
Un’espulsione imminente
Secondo quanto riportato da HaAretz, il governo israeliano sta preparando una deportazione di massa di rifugiati in Sud Sudan. L’Avvocato Generale Yehuda Weinstein la prossima settimana, discutendo di fronte alla Corte Distrettuale di Gerusalemme, affermerà che non ci sarà alcuno ostacolo legale alle espulsioni «perché nessuno degli espulsi sarà a rischio di vita nel loro paese». La Corte Distrettuale di Gerusalemme per il momento ha imposto un ordine temporario che proibisce la deportazione degli immigranti dando ragione ad una petizione di cinque organizzazioni dei diritti umani contro la volontà del governo Netaniahu di deportare gli immigrati.
«Una crisi umanitaria ha luogo in Sud Sudan ed è possibile che da questa si generi una carestia» ha dichiarato Anat Ben Dor avvocato del Refugee Rights Clinic presso l’Università di Tel Aviv. «Si aggiungano inoltre i continui conflitti ai confini con il Sudan, per cui in tali circostanze la decisione di far ritornare i sudanesi in Sud Sudan è prematura e irresponsabile». Le parole però del Ministro degli Interni israeliano Eli Yishai non lasciano sperare in un esito diverso «Se fosse per me, li espellerei tutti» ha tuonato qualche giorno fa.
«Eppure gli ebrei dovrebbero sapere cosa significa vivere nella paura, tra violenza, razzismo e caccia all’uomo..» dice Alì prima di salutarci. «Sali sul bus e lo capisci dagli sguardi che per gli israeliani sei diverso. Proprio loro che hanno sofferto. Perché lo hanno dimenticato? Perché ci attaccano? E perché tutti gli altri sono indifferenti? No, io non vado a manifestare..». Ma la sua voce è leggero fruscio, suono inascoltato tra l’alta musica dei pub e della movida di Tel Aviv, “la città che non si ferma mai”, che si prepara, indifferente, ad un altro giovedì di festa e di divertimento.
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