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Militari turchi: condanne esemplari per il presunto golpe

Ventuno mesi per indagare, raccogliere prove (secondo la difesa “costruirle artificiosamente”), interrogare e sentenziare. La Corte criminale di Istanbul ha condannato 325 dei 365 graduati turchi imputati per il cosiddetto piano Sledgehammer (o Balyoz) che mirava all’ennesimo colpo di stato, prosciogliendone 36. Alla lettura della sentenza una parte del pubblico ha contestato il verdetto definendo i militari “eroi dell’esercito kemalista”, secondo alcune agenzie di stampa si trattava di attivisti del partito nazionalista (Mhp) al quale fa riferimento più d’un generale. Fra i condannati il Gotha delle tre Armi di uno degli apparati di difesa più copioso ed efficiente della Nato: l’ex responsabile delle forze di terra Çetin Doğan, l’ex comandante dell’aviazione Halil Ibrahim Fırtına e l’ex ammiraglio Özden Örnek. Per i tre era previsto l’ergastolo tramutato in vent’anni di reclusione. Per altri esponenti dei comandi supremi, in gran parte dismessi dall’incarico da tredici mesi come del resto i loro superiori, gli anni di detenzione saranno diciotto. Per il ruolo, il gran numero dei militari coinvolti, le conclusioni che pur non applicando le pene massime non hanno sminuito il pericolo del progetto eversivo, la sentenza assume un enorme valore nel decretare i rapporti di forza del Paese. Contribuendo a rafforzare il potere del premier Erdoğan e del suo partito (Akp) contro cui l’ipotetico putsch era rivolto.

Proprio sull’effettiva volontà di organizzare un colpo di mano contro la componente dell’Islam politico, che dal 2002 siede al governo con un consenso elettorale che sfiora la maggioranza assoluta, ha puntato l’agguerrito apparato legale di difesa. Esso ha sostenuto che i pm scambiavano simulazioni d’attacco con l’intenzione d’un vero golpe che nessun militare ha mai pensato d’attuare. Nel dibattimento però gli imputati non riuscivano a chiarire a cosa sarebbero potuti servire, se non a spargere sangue e caos, due attentati previsti nelle frequentatissime moschee di Istanbul (Fatih e Beyazıt). Un dibattimento risultato incalzante con scambi di accuse su presunte irregolarità, la più infamante lanciata ai giudici dai difensori dei militari è l’aver manipolato documenti vocali, le registrazioni di alcuni imputati che telefonicamente scambiavano progetti e valutazioni sugli sviluppi dell’inziativa. Accusa rigettata sulla base di prove tecniche che non hanno convinto tutti. In effetti il piano non ha avuto attuazione a seguito, però, di un’indagine partita nel 2003 che iniziava a infastidire i potenziali esecutori. Secondo alcuni analisti i generali non erano certi di poter riscuotere come in altre occasioni un’adesione compatta di tutti i reparti, forse perché le Forze Armate risultano “infiltrate” da elementi vicini alla politica del primo ministro. Un’accusa che da qualche tempo kemalisti e nazionalisti lanciano al Partito della Giustizia e Sviluppo, considerato l’esecutore del disegno islamista dell’ideologo Fetullah Gulen.

Fra ipotesi di golpe – reali o fantasiose – restano inchiesta e sentenza che in due anni hanno trasformato non poco la lobby militare. Non solo nel cambiamento delle componenti interne che pure c’è stato, bensì nel controllo che la società civile e politica della nazione cominciano a stabile su quel mondo a parte. Che per giunta perde parecchi privilegi – i cosiddetti benefit non solo stipendiali – il cui ridimensionamento tanto angoscia gli imputati e conseguentemente i familiari. Alcuni di loro inseriti e potenti, come Dani Rodrik, il genero di Doğan, ha pubblicato sulla stampa internazionale alcuni articoli che sottolineavano una macchinazione persecutoria ordita contro quei vertici militari, volutamente infamati e defenestrati. Eppure non sembra cerchiobbottismo il timore che si pone qualche editorialista turco nel fare una disamina delle conseguenze della sentenza. Il desiderio di rompere l’apparato occulto di una lobby, di renderla permeabile a controlli del mondo civile per garantire fino in fondo la salvaguardia democratica delle istituzioni, è un princìpio sano ma non completamente assicurato. I sospetti provengono da altre questioni che riguardano l’esercito (scandalo Uludere) in cui 34 civili sono stati uccisi perché creduti “terroristi” (leggi militanti del Pkk). Nella vicenda c’entrano agenti dei Servizi e lo stesso governo nel piano – in questo caso loro – di un conflitto sporco con l’indipendentismo kurdo. 

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