Nena News – «La maggioranza degli israeliani sostiene l’Apartheid nel caso in cui Israele annetterà i Territori [palestinesi occupati nel ’67]». E’ questa l’amara conclusione a cui giunge il giornalista israeliano Gideon Levi commentando i risultati di un sondaggio effettuato dalla società Dialog. L’indagine, su un campione rappresentativo di 503 persone intervistate telefonicamente, è stata compiuta da un gruppo di accademici e attivisti dei diritti del cittadino ed è stata commissionata dal “Fondo Israela Goldblum” la vigilia del Capodanno ebraico Rosh HaShanà (il 16 Settembre).
Il quadro che emerge dai dati pubblicati ieri dal quotidiano israeliano Ha’aretz è desolante: la maggioranza degli ebrei d’Israele (59%) vuole essere preferita agli “arabi” [i palestinesi cittadini d’Israele] nelle assunzioni agli uffici governativi; quasi la metà di loro (il 49%) vuole che Tel Aviv si preoccupi più dei suoi cittadini ebrei che di quelli “arabi”; il 42% non vuole vivere con quest’ultimi nello stesso edificio e una percentuale simile non vuole che i propri figli studino nelle classi con loro. Un terzo degli intervistati, inoltre, è favorevole ad una legge che vieti agli “arabi israeliani” di partecipare alle elezioni alla Knesset e il 69% sono contrari a dare il diritto di voto ai 2.5 milioni di palestinesi in Cisgiordania nel caso in cui Israele dovesse annetterla.
Snocciolando i dati si ricava che il 74% è d’accordo alle strade differenti per coloni e palestinesi in Cisgiordania (il 24% ritiene che sia “buono”, il 50% che sia “necessario”). Il 47% vuole il “transfert” – l’espulsione – degli “arabi israeliani” all’Autorità Palestinese. Importante evidenziare come il 58% degli israeliani ritenga perfino oggi, cioè prima di una eventuale annessione dei Territori Occupati, che Israele si macchi di Apartheid (il 31% la pensa diversamente). Il 38% degli intervistati vuole l’annessione dei Territori palestinesi in cui ci sono le colonie a fronte del 48% che si oppone.
I più estremisti nella società israeliana sono gli “Haredim” [gli ultraortodossi ndr] che per l’84% sono contrari al diritto di voto dei palestinesi, l’83% sono a favore delle strade differenziate tra coloni e residenti palestinesi e il 71% caldeggia una loro espulsione. Anche per ciò che concerne lo Stato d’Israele, gli ultraortodossi sono i più estremisti: il 70% vorrebbe negare la partecipazione dei cittadini “arabi” alle elezioni, il 95% appoggia la discriminazione tra ebrei ed “arabi” nell’accesso ai posti di lavoro. In una ipotetica classifica su chi è più razzista nella società israeliana dopo gli Haredim seguono coloro che si definiscono “religiosi”. All’ultimo invece ci sono i “laici”, il 63% dei quali non ha problemi a vivere in uno stesso edificio con vicini “arabi”, il 73% di loro non è contrario alla presenza di studenti “arabi” nella classe dei propri figli e il 50% afferma che non sia giusta la discriminazione sui posti di lavoro.
Sorprende forse che le posizioni degli immigrati dell’ex Unione Sovietica sono molto più vicine a quelle dei “laici” e molto meno estremiste di quelle degli altri settori della società. Va però evidenziato che è maggiore tra loro il numero dei “non so”. I “russi” (così definiti nel sondaggio) sono anche quelli che si mostrano più felici di vivere in Israele (77%) contrariamente ai laici che sembrano esserlo di meno (63%) laddove, complessivamente, il 69% degli intervistati dichiara di essere contento. Dunque, riassumendo «un numero compreso tra un terzo a metà degli israeliani ebrei vuole vivere in uno stato in cui vi sia una palese e ufficiale discriminazione contro i suoi cittadini arabi», afferma Levi, «una maggioranza ancora più grande vuole vivere in uno Stato d’Apartheid, qualora Israele volesse annettere i Territori».
I “russi” sono quelli che più degli altri sono contrari all’idea di vivere in un paese in cui la discriminazione razziale sia istituzionalizzata: il 35%, infatti, è convinta che “non ci sia affatto Apartheid” rispetto al 28% dei laici e degli Haredim, il 27% dei “religiosi” e il 30% dei “tradizionali”. Ciononostante, come sopra indicato, complessivamente il 58% degli intervistati ammette che in Israele vige un Regime di Apartheid “in pochi campi” o “molti campi”. Solo l’11% “non sa”.
Uno dei curatori del sondaggio, il Dottor Amiram Goldblum, commentando su Ha’aretz i dati, ha affermato che «bisogna agire velocemente prima che il pericolo dell’Apartheid dilaghi in un modo da cui sarà impossibile uscirne fuori. Bisogna formare con urgenza un organismo pubblico che combatti le tendenze rivelate dal sondaggio».
Ma c’è da chiedersi se sorprendersi per l’indiscussa gravità dei dati emersi. E soprattutto: solo ora bisogna «agire velocemente»? Non bisognava farlo già molto tempo fa? In un paese dove il Ministro dell’Istruzione Gideon Sa’ar da anni prova a trasformare il sistema educativo in una macchina di propaganda per l’ideologia sionista (per sua natura orientata solo ad un pubblico “ebreo”) promuovendo viaggi-studio nei siti “del popolo ebraico” in Giudea e Samaria (si legga Cisgiordania Occupata palestinese) che opta per curricula scolastici impregnati di patriottismo sionista, di rappresentazione dell’Altro come “nemico” e che mette a tacere le voci di dissenso al mainstream sionista (si chieda ad esempio ai professori del Dipartimento di Studi Politici dell’Università Ben Gurion a Ber Sheva le cui iscrizioni potrebbero essere fermate per l’anno 2013).
In un paese dove militari e coloni sempre più frequentemente parlano nelle classi e poco dopo combattono, utilizzando la stessa pratica, il “nemico” palestinese. In un paese dove la storia insegna che il politico carismatico, il “leader forte”, è agli occhi dell’opinione pubblica quello che meno si mostra benevole verso gli “arabi” (“interni” ed “esterni”), quello che più difende strenuamente l’ebraicità dello Stato, di uno Stato che è destinato ai soli ebrei. In un paese in cui la demografia (si legga paura del numero degli “arabi”) è assurta a fobia collettiva perché l'”invasione dei vicini” è sempre imminente. In un paese che dall’anno della sua fondazione espelle ad alta e bassa velocità gli abitanti palestinesi (come dimostrano le documentazioni di varie associazioni di diritti umani israeliani riportate dai maggiori quotidiani israeliani), ecco in questo stato perché doversi meravigliare per la lettura di questi dati? Perché solo ora bisogna «agire velocemente»?
Non deve perciò sorprendere quanto rivelato sempre ieri da Ha’aretz riguardo le posizioni sul conflitto con i palestinesi della leader laburista Shelly Yachimovich nel suo incontro “segreto” a Parigi con il Presidente francese Hollande il 23 Luglio scorso. Da quando è stato eletta a capo del partito laburista, l’unica credibile oppositrice di Netaniahu alle prossime elezioni di Gennaio (salvo ritorni di Livni e Olmert che appaiono di giorno in giorno sempre più possibili) sta cercando di guadagnare consensi nell’elettorato israeliano prima cavalcando la protesta per la”giustizia sociale” e poi sfruttando la crisi di Kadima (centro-destra), della debolezza di Atzma’ut di Barak (centro per i canoni israeliani) e dell’agonizzante centro sinistra sionista (Meretz). Ma tutto ciò non basta ancora per essere “credibile” in Israele perché lo spartiacque qui tra essere un’anonima segretaria di partito e una candidata “pronta” a svolgere il ruolo di premier consiste nella maggiore o minore chiusura nei confronti dei palestinesi e, va da sé, nella difesa dei valori sionisti. Ecco perché le parole usate da Yachimovich (praticamente identiche a quelle di destra di Netaniahu) non devono sorprendere: «Riconoscimento palestinese d’Israele come Stato ebraico e democratico, soluzione a due stati con compromesso territoriale, difesa dello Stato d’Israele, ripresa immediata delle negoziazioni senza condizioni preliminari».
Non deve sorprendere neppure se sempre ieri sul sito Arab48, espressione dei palestinesi d’Israele che fanno capo al partito Al-Tajammu’ di ‘Azmi Bshara, è stata pubblicata la petizione promossa dal parlamentare Danny Danon in cui si chiede di vietare alla parlamentare “araba” Hanin Zo’abi (“nemica di stato” soprattutto dopo il suo viaggio a bordo della Mavi Marmara nel 2010 nella prima campagna della Freedom Flotilla) di candidarsi alla Knesset alle prossime elezioni. Il silenzio della stampa locale è stato assordante. Eppure non è però la prima volta che un candidato “arabo” è discriminato, umiliato e messo alla berlina dalla maggioranza ebraica. Eppure perché solo ora ci si accorge che la società israeliana è razzista e sostiene l’Apartheid? E che significa «intervenire velocemente» laddove si sta ben attenti (non si vuole o non si può?) a criticare la causa (e combustibile allo stesso tempo) del razzismo di Tel Aviv: e’ il sionismo, il nazionalismo sfrenato?
* Nena News
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