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Gravi alcuni prigionieri politici curdi in sciopero della fame

La protesta cominciata ormai il 12 settembre da centinaia di prigionieri politici turchi continua e alcuni degli scioperanti sono in gravi condizioni. Dopo 58 giorni di astensione totale dall’assunzione di cibo almeno 144 detenuti hanno cominciato ad accusare disturbi molto gravi e per molti di loro la situazione è compromessa. Se anche smettessero oggi la forma estrema di protesta il loro organismo ha riportato già danni gravissimi e irreversibili. Ma i prigionieri mobilitati in 66 diverse carceri – e con loro altre centinaia di persone, sia all’interno del territorio dello stato turco che in alcune città d’Europa – non vogliono fermarsi anche se i più deboli e provati potrebbero cominciare a morire tra una settimana.
Negli ultimi giorni, anche se mantiene un atteggiamento minaccioso, il governo nazionalista e islamico di Erdogan ha cominciato ad accusare il colpo ed a prospettare alcune lievi aperture alle rivendicazioni del movimento curdo.
Il vicepremier di Ankara Bulent Arinc ha annunciato l’altro ieri che nell’ultima riunione del consiglio dei ministri il capo del governo ha chiesto al ministro della giustizia che ”una persona possa difendersi davanti al tribunale nella lingua nella quale può esprimersi meglio”. Secondo quanto hanno fatto sapere i rappresentanti dell’Akp una proposta di legge in questo senso sarà presentata al parlamento di Ankara. Che venga approvata, però, è tutto da vedere. E da solo questo cedimento del governo turco non basta a soddisfare le altre richieste dei 700 prigionieri in sciopero della fame che chiedono anche la fine dell’isolamento imposto nell’isola prigione di Imrali al leader del Pkk Abdullah Ocalan, che da oltre un anno non ha potuto vedere i propri avvocati ed ha ricevuto una sola visita, quella del fratello.
Ed è un segnale concreto a proposito delle inumane condizioni di carcerazione di Ocalan che chiedono i partiti e le organizzazioni politiche e sociali curde per porre fine allo sciopero della fame dei prigionieri. Che, ha detto ieri il copresidente del BDP – il Partito della Pace e della Democrazia – finirà se Ankara consentirà al loro leader di ricevere visitatori. “Se i legali di Ocalan potranno fargli visita nella prigione di Imrali, penso che gli scioperi finiranno” ha detto Demirtas.
Una richiesta che il governo di Ankara potrebbe accettare senza particolari contraccolpi, se non di tipo simbolico.
Proprio nelle ultime ore l’esercito turco ha scatenato una nuova offensiva militare contro la guerriglia del PKK nei territori curdi del Nord dell’Iraq. Per la prima volta in cinque anni un’offensiva di terra, con l’impiego di uno spiegamento di forze militari considerevoli – ben due battaglioni trasportati in elicottero – e con l’ausilio di mezzi corazzati è penetrata d molti chilometri nel territorio iraqeno.
Nelle ultime settimane la brutale – e usuale – repressione delle autorità turche si è abbattuta contro decine di manifestazioni convocate dal BDP e da altre formazioni curde a sostegno dei prigionieri e delle loro rivendicazioni. 
A farne le spese anche un gruppo di giornalisti italiani e francesi fermati per diverse ore dalla polizia a Diyarbakir, nel Kurdistan turco, perché si trovavano nelle vicinanze di una manifestazione non autorizzata. Anna Maria Esposito di Rainews 24 ha raccontato all’Ansa quanto è accaduto. ”Siamo stati brutalmente trattenuti” ha detto la giornalista arrivata a Diyarbakir alcuni giorni fa per seguire il primo Festival del cinema curdo. ”Avevamo appena finito un’intervista ad una parlamentare curda del partito pro-curdo Bdp, quando la polizia in tuta antisommossa – ha raccontato –  ha circondato il Parlamento dove si svolgeva una manifestazione non autorizzata per chiedere la liberazione del leader del Pkk Ocalan”. ”La polizia – ha proseguito – ci ha fermati mentre eravamo in auto in una strada affollata solo perchè il collega francese che era accanto al guidatore aveva in mano una telecamera”. ”Siamo stati spintonati, ma la peggio l’ha avuta il nostro interprete curdo che è stato malmenato dai poliziotti: noi siamo stati trattenuti per diverse ore in commissariato dove hanno ispezionato i nostri cellulari e telecamere”. 
 
Intervista alla deputata curda del Bdp Sebahat Tuncel

“Senza Ocalan non c’è soluzione”
 
Fonte: L’Indro

(Istanbul) La parola che ricorre di più è ‘şantaj’, ricatto. Mentre comincia il 57esimo giorno dello sciopero della fame dei detenuti curdi nelle prigioni della Turchia, è questo che il governo turco sta facendo secondo la deputata del Bdp (Partito per la Pace e la Democrazia) Sebahat Tuncel. La incontriamo nella sede del partito a Tarlabaşı, tra i quartieri a più alta concentrazione curda di Istanbul, in uno dei momenti più delicati della storia recente del Paese. Fino a due giorni fa, i detenuti in sciopero della fame erano 683 in 66 carceri. Adesso, sono circa diecimila: praticamente tutti i curdi in galera per presunti reati (quasi la metà sono ancora in attesa di giudizio) legati alla loro attività politica. “Tutti, tranne gli anziani e i malati”, precisa.

Una situazione allarmante per gli equilibri di un Paese in cui solo quest’anno sono almeno 600 i morti negli scontri tra l’esercito e i ribelli del Pkk nel sud-est e la questione curda sembra lontanissima da una soluzione. Il fiocco rosso di solidarietà alla protesta appuntato alla giacca, Tuncel ci spiega: “Senza il coinvolgimento di Abdullah Öcalan (il leader del Pkk in galera dal 1999, ndr) non si risolverà nulla, ma il governo continua a rifiutarsi di riconoscerlo come interlocutore”.
 
Per il Bdp, il confine tra le sentenze dei tribunali e la volontà politica del governo è spesso invisibile. La stessa Tuncel tra il 2006 e il 2007 ha passato nove mesi in prigione con l’accusa di legami con il Pkk: a tirarla fuori sono stati i quasi centomila voti ottenuti con la candidatura come deputato indipendente che le hanno aperto le porte del parlamento di Ankara e ne hanno fatto un simbolo rendendola la prima persona nella storia della Turchia ad essere eletta dal carcere. Riconfermata lo scorso anno ancora come deputata di Istanbul nonostante i processi ancora pendenti a suo carico e il divieto di lasciare il Paese, la 37enne cartografa con un passato anche da attivista per i diritti umani denuncia oggi “un governo che vuole disumanizzare le richieste di libertà classificandole come terrorismo”.

 

Qual è l’obiettivo della protesta?
Ci sono alcuni diritti fondamentali che lo Stato non vuole riconoscere: il diritto all’educazione e alla difesa nella propria lingua madre e la fine dell’isolamento di Öcalan, che da quasi un anno e mezzo non può incontrare i suoi avvocati. Non è uno sciopero sulle condizioni di detenzione. È uno sciopero sulle libertà fondamentali. Non a caso è iniziato in un giorno simbolico come il 12 settembre, anniversario del colpo di Stato del 1980.
 
Però il governo sostiene che quello di Öcalan non è un vero isolamento, visto che può incontrare i familiari.
È vero, ma è un inganno. La questione è politica, non personale. Le sue condizioni sono state rese ancora più difficili da quando nelle note date ai suoi avvocati ha rifiutato di avallare i negoziati di Oslo (tra esecutivo e Pkk, ndr), spiegando che non c’erano le condizioni per portarli avanti. Da allora, il governo lo ha isolato come ritorsione e neppure noi deputati, che pure per legge possiamo visitare tutte le carceri della Turchia, abbiamo diritto di vederlo: questa si chiama tortura.

 Come giudica invece l’apertura del vicepremier Bülent Arınç sull’introduzione del diritto degli imputati di scegliere la lingua con cui difendersi in tribunale? 
Sarebbe un passo importante, ma non è credibile. Mentre lui dice questo, il nostro vero interlocutore, cioè il premier Erdoğan, insiste nell’accusare il Bdp di essere colpevole dello sciopero della fame.
 

Qualche giorno fa è circolata l’ipotesi di un’adesione di voi deputati alla protesta. È possibile?
 Forse (sorride, ndr). Su questo c’è un dibattito interno al partito, la maggioranza vuole unirsi allo sciopero se le nostre richieste continueranno a non essere ascoltate. Ma oggi la priorità è quella di trovare una soluzione al più presto possibile, perché non vogliamo che nessuno dei nostri amici in prigione muoia. Noi combattiamo da fuori con gli strumenti dei deputati, per costruire un dialogo con tutte le persone responsabili. Perché se volesse, il governo potrebbe risolvere la questione immediatamente.

Temete che da questo scontro possa scaturire una nuova messa al bando dei partiti curdi, come già successo in passato?
 Praticamente, è come se fosse già successo. In prigione ci sono diecimila militanti del Bdp, anche se noi continuiamo a lottare con le risorse che abbiamo.

Che ne pensa della volontà espressa da Erdoğan di togliervi l’immunità parlamentare?
Tutto è possibile in Turchia (sorride di nuovo, ndr). È un’altra forma di ricatto. Ma noi non abbiamo paura: io in galera ci sono già stata. E poi, 6 dei nostri deputati sono già adesso in prigione. Per noi non è importante sedere in parlamento, ma restare a fianco del popolo e della sua lotta. Dicono: “O state a Qandil (le montagne dove si concentra la maggioranza dei militanti del Pkk, ndr) o state in parlamento”, ma è un falsa contrapposizione. Così confermano solo l’attitudine fascista dello Stato nei confronti dei curdi. Possono arrestare i deputati, ma non tutti i curdi. Per questo alla fine vinceremo.

Però il governo vi contesta la vicinanza al Pkk, che considera un’organizzazione terrorista, e cita il caso della scorsa estate, quando avete incontrato e abbracciato alcuni militanti. Pensa sia stato un errore?
Quello non era un incontro pianificato: li abbiamo incontrati ed è stato naturale abbracciarli perché sono figli del popolo, ragazzi che la gente vede come combattenti per la libertà e non come terroristi. Del resto, il governo chiama terroristi anche noi deputati. Per fare una battuta, si potrebbe dire che è stato un incontro tra terroristi.

La situazione militare nel sud-est turco però resta drammatica. Cosa dobbiamo aspettarci?
Stiamo affrontando una realtà di guerra: dall’inizio dell’anno almeno mille persone sono morte, molte di più di quelle che dice il governo. E la guerra non finirà se non inizieranno i negoziati. Il governo dice: “Prima smettete di combattere, poi trattiamo”. Ma è falso. Come sono un inganno le concessioni di questi anni: il canale tv in curdo Trt6, le ore facoltative di curdo nelle scuole. Non sono queste le nostre richieste, ma i diritti culturali, sociali e politici. E lo status di curdi.

Quindi pensa che si continuerà a combattere?
In Medio Oriente i curdi sono ormai un potere importante e possono portare più democrazia. Come i curdi in Siria e in Iraq, che stanno costruendo la loro libertà.

Alcune strategie del Pkk, come le scuole incendiate e i sequestri di civili, sono sotto accusa. Come le giudica?
I sequestri sono solo uno strumento di propaganda: le persone vengono rapite e dopo due o tre ore rilasciate. Invece quella di dar fuoco alle scuole è una pratica più importante, che non accettiamo. Ma bisogna capire la rabbia di quei giovani, che si sfogano contro un’istituzione statale che per loro rappresenta soltanto un centro di assimilazione dove la loro lingua viene uccisa e la loro cultura denigrata. Per noi, però, la via più giusta di protesta contro il sistema educativo è quella pacifica del boicottaggio.

Ha paura che in Turchia ritorni la pena di morte, come ha suggerito Erdoğan qualche giorno fa?
È l’ennesimo ricatto, che va al di là del senso di umanità e moralità. Ed è curioso che arrivi proprio mentre centinaia di persone decidono di mettere a rischio la propria vita con uno sciopero della fame pacifico.

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