(Vedi ieri la prima parte dell’articolo sulla Cina)
Un articolo di Beijing Review del 28 giugno a firma Lan Xinzhen dedicato alla riforma delle Aziende Statali, riporta la posizione di Bao Yujun, presidente della Federazione Nazionale delle Imprese Private di tutta la Cina(una sorta di Confindustria cinese), secondo il quale “le Aziende Statali dovrebbero tornare al proprio posto, cioé, fare da supplemento laddove il mercato fallisce, invece di strappare profitti alle aziende private in settori in cui il mercato funziona bene”.
Ora è evidente che questa posizione, per quanto legittima in Cina, differisce sostanzialmente dalle linee di programmazione economica attuale in cui la parte da leone viene giocata dalle aziende pubbliche(quelle statali sono quelle possedute dall’amministrazione Centrale, e quindi solo una parte delle aziende pubbliche a livello nazionale).
Qui il gioco di parole su termini come “pilastro”, o corpo principale, lasciano spazio a interpretazioni differenti. Ad esempio c’è chi vorrebbe appunto limitare il ruolo dello stato alle sole industrie strategiche(energia, telecomunicazioni, trasporti, ecc..) e chi addiriuttura chiede di rompere quelli che in economia si chiamano monopoli naturali, in cui il monopolista pubblico è in teoria in grado di fornire il prezzo più basso per unità prodotta.
D’altronde la privatizzazione anche di questi settori in Occidente e in Europa(con aumento dei prezzi delle tariffe e spesso servizi peggiori)ha fatto scuola. Il risultato è che sempre più movimenti politici e associazioni in Europa chiedono a gran voce la ripubblicizzazione dei beni comuni come metodo per uscire dalla crisi e rilanciare consumi e investimenti, a riprova dei danni prodotti da tali involuzioni.
C’è invece chi in Cina vorrebbe mantenere l’attuale sistema in cui le aziende pubbliche operano anche in campi non direttamente strategici, come la produzione di elettrodomestici(Haier, Lenovo, ecc…), telefoni cellulari, computers…ecc…
Probabilmente, qualora queste spinte alla privatizzazione nei settori non strategici dovessero trovare accoglimento formale, tali aziende sarebbero le prime a finire nel mirino delle privatizzazioni, tramite la vendita delle quote di azionariato in mano allo stato, riprendendo una tendenza iniziata negli anni 90 e stoppata poco prima dell’arrivo ai vertici della coppia Hu-Wen.
Tuttavia qui quello che preme sottolineare, oltre alle conseguenze sul piano lavorativo che una privatizzazione massiccia di questi settori comporterebbe, è che già attualmente esprimere una simile posizione indica con evidenza uno stato di coscienza avanzata maturata da questa fetta di imprenditoria privata cinese, del suo ruolo e di che cosa vuole. Se il Partito non riesce ad arginare tali richieste e procedere ad una rinazionalizzazione almeno delle più grandi imprese private cresciute oltre un certo limite oltre il quale possono essere dichiarate ormai di rilevanza nazionale(penso alla Huawei o alle grandi accaierie private come lo Shagang group del Jiangsu, ecc..), e a ridurre le disparità sociali attraverso la leva fiscale(come peraltro sostenuto da Hu nel suo rapporto al Congresso), sarà molto difficile mantenere la tendenza agli aumenti salariali e quindi a mantenere i piani di modifica del modello di sviluppo basati sull’espansione della domanda interna. (Non si tratta più di piccole e medie imprese a conduzione familiare, forse anche accettabili nel socialismo, ma di grandi conglomerati industriali gestiti da capitalisti privati).
Infatti il lungo documento scritto da Li Keqiang su come sviluppare la domanda interna, abbassare il tasso di investimento e di risparmio, che rappresenta la visione strategica di risposta alla crisi mondiale e di evoluzione del sistema produttivo e di vita del paese, ha come presupposto la continua crescita dei salari medio bassi, quelli che sarebbero spesi in beni di primo consumo o in beni di consumo di fascia bassa, quelli dunque con una propensione marginale al consumo più alta.
In questo senso la parte del documento in cui si chiede lo smantellamento dei monopoli appare in contraddizione con l’obiettivo dell’espansione di lungo periodo della domanda.
Solo con questo presupposto la crescita del potere d’acquisto non si trasformerebbe in crescita della domanda estera e delle importazioni(a differenza di quanto accade quando ricchi cinesi acquistano Bmw, Audi e Ferrari, alta moda e in generale beni di lusso lavorati in Occidente). La Cina in questo senso forse è l’unico paese che può permettersi tali aumenti salariali senza squilibrare la bilancia commerciale in quanto è già il più grande produttore manifatturiero di beni di consumo del mondo. Si tratta in sostanza, di far sì che i cinesi acquistino essi stessi i prodotti che fino ad oggi hanno lavorato per soddisfare la domanda estera. Tramite la creazione di una vasta rete di distribuzione(mancano in Cina grandi giganti della distribuzione pubblici o privati, il che contribuisce all’eccessiva elasticità dei prezzi verso l’alto rispetto alla domanda, limitando i consumi non appena scalano i livelli di sussistenza), sarà possibile reindirizzare la produzione per l’estero verso i consumi interni. Per fare questo occorre cambiare le abitudini di spesa dei cinesi che sono tuttavia giustificate in caso di mancanza di reti sociali e di welfare adeguate(tasso di risparmio tra i più alti del mondo per far fronte a spese improvvise). Ora questa rete è in via di costruzione, e i cinesi hanno “aperto il portafoglio”durante gli ultimi due anni, nonostante la riduzione della crescita dovuta alla crisi. A quel punto le entità economiche private delle zone costiere(penso allo ZheJiang o all’ hub di Wenzhou), che a tutt’oggi sono legate alla domanda internazionale più che a quella domestica, quasi come entità estranee, inizieranno a diversificare e a produrre di più per il mercato interno, riallineandosi e diventando una sorta di indotto per la produzione di beni di consumo destinata a quei lavoratori che percepiscono un reddito invece dalle aziende statali, pubbliche o private che hanno sempre prodotto per il mercato interno.
In particolare nella città-hub commerciale di Wenzhou, durante il 2011 si è verificato un crack, con il fallimento di molte aziende private orientate all’export, a causa della caduta della domanda internazionale. Il governo è corso ai ripari, allentando i canali del credito agli imprenditori che numerosi hanno o erano sul punto di dichiarare fallimento.
Il modello di Wenzhou è quindi in questo senso, ma anche letteralmente, in via di liquidazione o in fallimento, se non interviene lo stato o le banche per stabilizzarlo e salvarlo dalla crisi.
Dietro a tutta questa spinta per l’istituzionalizzazione dei canali di credito ai privati fuori dalle 4 grandi banche nazionali è infatti facile leggere la spinta di questi settori di borghesia in difficoltà. Durante l’ultimo anno i profitti in alcuni settori sono scesi in media del 2-3%, mentre i salari sono saliti a tassi variabili ma comunque a due cifre a partire dal 2008. I salari minimi provinciali sono stati aumentati di colpo a volte del 20, 30%. La Cina è quindi il paese al mondo in cui nonostante la crisi i profitti scendono e i salari sono saliti in proporzione di più di qualunque altra economia al mondo, Brics compresi.
E’quindi evidente che di fronte alla domanda crescente (tipica di un paese a medio reddito ma in crescita) di beni e servizi di assistenza sociale, assistenza sanitaria e previdenziale, da parte della popolazione, la privatizzazione dell’economia pubblica non sia la soluzione. Se i profitti delle aziende private dovessero subire ulteriori erosioni, ciò bloccherebbe gli aumenti salariali che sono comunque attesi nei prossimi anni, cosa che non necessariamente, o comunque in misura minore, avverrebbe nelle aziende pubbliche. La forza delle aziende statali cinesi sta anche in questo: possono sopportare profitti più bassi del tasso medio ritenuto accettabile dal capitale privato in altri settori, e dunque possono mantenere competitivi prezzi, alti i salari, e continuare ad investire gran parte degli utili, oltre ad occupare segmenti di mercato ritenuti non profittevoli dal capitale privato ma comunque utili socialmente. In questo modo riescono a favorire l’espansione della domanda, laddove le economie capitalistiche riducendo i salari ricadono periodicamente in crisi di sovrapproduzione relativa. Sono sostanzialmente prive di quel drenaggio che il capitale privato utilizza per la riproduzione dello stile di vita e di consumo dei ricchi, che come detto in precedenza, in Cina spesso si traduce in un aumento della domanda estera di beni di lusso e quindi contribuisce alla crescita del pil di paesi come la Germania ed altri piuttosto che aumentare la domanda di prodotti made in China, oltre ovviamente a favorire l’evasione fiscale, la fuga dei capitali all’estero e la speculazione finanziaria.
Quelle pubbliche e statali sono quindi le aziende meglio attrezzate per resistere alla crisi che invece sta colpendo l’industria, spesso privata, orientata all’export. Anche per questo la confindustria cinese chiede di aprire ai privati i settori dominati dalle aziende pubbliche, perché spera di recuperare in quei settori i profitti attesi da quel tre percento di crescita, scesa dal 10 al 7 percento annuo dal 2010 al 2012, che invece la crisi della domanda, specialmente europea, gli ha negato.
Le stesse enormi dimensioni delle aziende statali inoltre generano economie di scala che difficilmente anche delle potenziali new entries private in quei settori potrebbero ottenere in un breve periodo.
Vista in prospettiva, le aziende pubbliche sono in grado di resistere meglio alla competizione economica globale, e saranno probabilmente quelle che rimarrano in piedi sulla scacchiera, mentre quest’ubriacatura liberista verrà spazzata via dalla stessa erosione della sua base economica e sociale.
Tanto più se la leva fiscale verrà utilizzata per riequilibrare i redditi, come annunciato.
Il problema è che se ciò non avviene in tempi ragionevolmente brevi, da un lato potrebbe saldarsi il blocco tra alcuni media, industrie private nazionali e associazioni massoniche della borghesia internazionale, e dall’altro il Partito verrebbe ritenuto responsabile del mancato soddisfacimento dei bisogni sociali che si esprimono ogni anno anche violentemente con proteste per gli espropri dei terreni agricoli e le condizioni di lavoro. Ciò, come affermato dai vertici del Partito, potrebbe portare alla caduta del Partito e al collasso dello stato.
Nel medio periodo inoltre la ripubblicizzazione di molti settori ha un’importanza anche ideologica: la Cina rappresenta a tutt’oggi il paese socialista con l’economia pubblica più innovativa e dinamica. La concorrenza coi privati nazionali ed esteri ha contribuito a rendere più competitivi questi grandi conglomerati, e la capacità di competere sul terreno dell’economia con le grandi corporations private capitalistiche occidentali, producendo più e meglio nonostante i maggiori carichi sociali, rappresenta uno dei presupposti economici fondamentali della sopravvivenza stessa del socialismo come sistema economico. Se l’economia pubblica non viene resa competitiva, la crescita di lungo periodo delle aziende private fornirà ai paesi imperialisti una vitalità economica e sociale che li metterebbe in grado di vincere qualunque “guerra fredda” o politica di confronto da lanciare verso qualunque paese osasse ribellarsi all’ordine internazionale costituito.
In certi settori le aziende statali hanno dato vita ad una sorta di duo o triopolio generando livelli di concorrenza reciproca in grado di simulare gli effetti del mercato ma senza richiedere la presenza di capitale privato. Ad esempio nel settore dell’industria estrattiva, aziende come la Petro China, la Sinopec, e la Cnooc hanno dato prova di livelli di competizione reciproca riconosciuti anche dalla stampa estera, nonostante la condizione di oligopolio.
Idem nell’industria dell’aviazione civile, con l’Air China, la China Southern Airlines e la China Eastern Airlines a farla da padrone, tutte compagnie statali.
O nel settore delle telecomunicazioni, con la China Telecom e la China Unicom. Nel caso dell’aviazione civile e della telefonia, si tratta di monopoli regionali o sulle rotte, ma qualora venissero poste sugli stessi livelli e obiettivi operativi si potrebbe generare un livello di concorrenza tra gli stessi giganti statali senza ricorrere allo stimolo esterno degli attori privati e generando quel minimo di concorrenza che genera efficienza e non deprime i salari.
Esempi del genere di strutturazione oligopolistica, per mantenere quel minimo di concorrenza salutare alla vitalità dell’economia, potrebbero essere estesi e costituire la base di un nuovo capitolo di sviluppo economico e di efficentamento.
Se l’attuale “fase primaria del socialismo” non venisse vista come quella in cui sviluppare le forze produttive al fine di creare la base materiale necessaria stabilire rapporti sociali più avanzati infatti, ci si fermerebbe al presente, a quanto di meglio l’Occidente sia riuscito a creare, con tutte le sue inerenti contraddizioni, e la dialettica tra civiltà occidentale ed orientale verrebbe meno, trasformandosi nella sottomissione definitiva, quantunque non in una condizione di sudditanza, dell’Oriente, allo stile di vita e ai rapporti sociali occidentali.
Per questo la ripubblicizzazione dell’economia di lungo periodo è la naturale conseguenza e l’evoluzione del sistema, di cui la fase di economia mista tipica della fase primaria del socialismo, la fase dell’uscita dal sottosviluppo, costituisce il presupposto materiale. A patto ovviamente che vi sia la volontà politica necessaria e il blocco sociale in grado di supportarla. D’altronde il potere del Partito non è compatibile nel lungo periodo con le privatizzazioni e il capitale privato. E’ un’accoppiata innaturale che non regge e che già adesso dà segni di insofferenza da parte di entrambi, nonostante un grande tentativo di cooptazione che però obbliga a scegliere tra ruolo privato, ruolo dirigenziale all’interno del Partito e carica pubblica negli organi di governo. Privato e socialismo non possono coesistere a lungo, se il primo mette in discussione il ruolo dominante dell’economia pubblica in Cina.
Per questo la sopravvivenza del Partito in Cina dipende in gran parte dal ruolo dell’economia statale e pubblica e per questo ridurla oltre un limite critico vorrebbe dire suicidio certo. Sembra essere anche questa una delle ragioni fondamentali che contribuirà a mantenere la barra dritta al fine di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori di quel paese, così da fornire in qualche modo “un modello di sviluppo” a molti paesi emergenti e ai movimenti antimperialisti. (fine)
http://www.agichina24.it/home/agenzia-nuova-cina/notizie/201211161321-cro-rt10103-il_discorso_del_nuovo_leader_xi_jinping
http://www.agichina24.it/in-primo-piano/diritto/notizie/i-nuovi-settebr-/signori-di-pechinobr-
http://www.globaltimes.cn/NEWS/tabid/99/ID/709894/Be-fair-when-passing-judgment-on-SOEs.aspx
http://www.globaltimes.cn/content/744820.shtml
http://www.bjreview.com.cn/business/txt/2012-06/25/content_462810_2.htm
http://english.qstheory.cn/leaders/201207/t20120705_168334.htm
http://www.businessweek.com/news/2012-11-13/china-s-urban-champion-li-gets-task-of-reviving-reform
http://www.chinadaily.com.cn/business/2010-08/31/content_11231563.htm
http://english.peopledaily.com.cn/90785/8024075.html
http://english.peopledaily.com.cn/90778/8024210.html
http://english.peopledaily.com.cn/90778/8024195.html
http://www.china.org.cn/top10/2011-09/19/content_23423751.htm
http://english.peopledaily.com.cn/90778/8025108.html
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
alberto gabriele
Ottimo articolo