Era previsto per le 8.30 di questa mattina l’avvio, presso la Corte Suprema di Giustizia del Guatemala, l’apertura dello storico procedimento penale per genocidio nei confronti di Efraín Ríos Montt, presidente ‘de facto’ ai tempi della dittatura che ha insanguinato il Guatemala tra il 23 marzo del 1982 e l’8 agosto del 1983.
José Efraín Ríos Montt, attualmente 86enne, è stato chiamato a rispondere per le sue responsabilità nell’uccisione di 1771 indigeni Maya Ixiles nel dipartimento settentrionale del Quiché durante il suo mandato, il più cruento della lunga guerra civile che tra il 1960 e il 1996 provocò almeno 200.000 vittime, principalmente tra le popolazioni indigene, ma anche tra i contadini e i settori sociali che sostenevano le forze della sinistra e la guerriglia dell’Urng. Insieme all’ex dittatore sotto processo c’è anche il generale – ora a riposo – José Rodríguez Sanchez, suo stretto collaboratore e capo dei servizi segreti ai tempi della dittatura. Secondo l’accusa l’obiettivo dei due era letteralmente quello di cancellare l’etnia Ixil del Quiché dalla faccia della terra.
Ma sarebbero state in totale circa 10 mila le vittime dell’esercito e della polizia, per lo più sepolte all’interno di fosse comuni, nei pochi mesi di governo del generale che era subentrato ad un altro militare – Romeo Lucas García – tramite un colpo di stato e che ha abbandonato la vita politica solo a gennaio di quest’anno, quando è scaduto il suo mandato di deputato e quindi la relativa immunità.
Inizialmente programmato ad agosto, a metà febbraio l’inizio del dibattimento è stato poi anticipato ad oggi. Gli avvocati della difesa hanno presentato ben sei ricorsi con l’obiettivo di rinviare l’avvio del processo per genocidio ma alla fine il ‘Tribunal A de Alto Impacto’ li ha respinti, dichiarando oggi ufficialmente aperto il dibattimento.
Il processo, secondo il quotidiano Prensa Libre, mira a dimostrare “e ricreare scrupolosamente la catena di comando che aveva ai vertici il generale Ríos Montt, per provare che egli sapeva delle stragi che i soldati perpetrarono sulle montagne del Guatemala contro gli indigeni Maya Ixiles, dal momento che mantenne un potere assoluto durante il suo governo militare appoggiato dagli Stati Uniti”.
Sia i pubblici ministeri che gli avvocati delle vittime sostengono infatti la tesi che “l’incapacità di fermare le atrocità è una prova della sua responsabilità”. Per 30 anni i sopravvissuti ai massacri hanno atteso che si facesse giustizia e siano puniti i responsabili del genocidio.
Circa un centinaio di periti e 130 testimoni sfileranno nel corso del processo in cui l’accusa esibirà 900 elementi di prova, tra deposizioni, rapporti forensi, video, decreti, leggi e piani militari. Il plauso delle organizzazioni a difesa dei diritti umani per la tenacia degli inquirenti si è però scontrato con la posizione del presidente Otto Pérez, generale a riposo dell’esercito, che nei giorni scorsi ha negato che durante la guerra sia stato commesso un genocidio.
Ci saranno anche periti militari a deporre a favore delle vittime descrivendo la catena di comando con l’obiettivo di confermare la responsabilità di Ríos Montt, in qualità di capo di stato maggiore generale dell’esercito. “In quelle funzioni avrebbe potuto correggere, modificare o fermare le conseguenze concrete che l’applicazione dei suoi ordini da parte dei subordinati stava producendo sulla popolazione civile, non combattente, disarmata e indifesa” secondo la pubblica accusa.
La Fondazione di antropologia forense del Guatemala (Fafg) ha effettuato oltre 60 perizie per l’identificazione di centinaia di resti umani che costituiranno altre prove del processo. “Come risultato abbiamo appreso che la grande maggioranza delle vittime erano bambini e donne e che la causa della morte fu violenta” ha dichiarato il direttore esecutivo della Fafg, José Suasnávar.
Scrive oggi l’agenzia Misna che l’apertura del processo è stata preceduta da un grave episodio di violenza contro quattro dirigenti indigeni della comunità Xinca di Santa María Xalapán, nel dipartimento sud-orientale di Jalapa, sequestrati da ignoti. Uno di loro è stato ritrovato morto, altri due sono riusciti a sfuggire ai rapitori, dell’ultimo non si hanno ancora notizie. Nella zona, teatro di un lungo conflitto territoriale tra gli abitanti e alcune aziende dedite allo sfruttamento minerario, la popolazione è costretta a vivere in condizioni di povertà estrema senza assistenza sanitaria né istruzione.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa