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Che leader è uno che accetta di essere spiato dagli Usa?

 Se mai c’era stata una crisi nei rapporti tra Usa e Europa, questa le batte tutte. La vicenda del Datagate supera di gran lunga i confini delle “indiscrezioni” raccolte nei file di Edward Snowden e si è trasformata in una presa di posizione continentale contro l’ingerenza americana sugli affari europei. Il salto di qualità è arrivato l’altroieri con la denuncia di Angela Merkel – la Nsa statunitense aveva tenuto sotto controllo il suo telefono cellulare, nemmeno fosse una dirigente di un gruppo salafita – che non segue affatto le rivelazioni del Guardian o di altri giornali, ma è un’iniziativa tedesca in tutto e per tutto. Tanto più seria, dunque, perché scarta decisamente rispetto alle proteste formali elevate nei giorni scorsi dalla Francia in “reazione” a notizie di stampa.

A questa denuncia è poi seguito, a poche ore di distanza, un altro scoop del Guardian secondo cui almeno 35 leader mondiali sono stati o sono ancora spiati dalla Nsa americana, in una operazione di “ordinaria amministrazione”. In questo caso, invece, si tratta di un memo riservato che fa parte dell’archivio di Edward Snowden.

Il vertice dei capi di stato e di governo continentali riunito in quelle stesse ore ha dovuto dunque prendere una posizione unitaria sul Datagate, condivisa persino dal cocker inglese, David Cameron (che però si è opposto ad un rafforzamento della normativa Ue sulla protezione della privacy e della tutela dei dati personali, considerandola “penalizzante per le imprese”). Del resto, non ha senso pretendere di essere considerati dei veri “leader” e fare spallucce alla notizia – confermata dai propri servizi di intelligence – che ogni tua conversazione arriva direttamente nelle mani del tuo “grande alleato”; che discute con te, conduce trattative impegnative (ad esempio sul progetto di “mercato comune euroatlantico”), ma conoscendo già i tuoi obiettivi, i tuoi limiti, i tuoi “punti di caduta” o le posizioni “irrinunciabili”. Che quindi ti tratta come un pollo da spennare mentre fa finta di esserti amico.

 

Altrettanto, se non di più, si può dire per la comune “lotta al terrorismo”. Se il capofila dell’allenza tratta le seconde linee come potenziali “nemici”, o amici da tener d’occhio, è ovvio che il “comun sentire” va a quel paese. Anche perché si tratta di condividere uomini, mezzi, strutture, informazioni, di cui poi “l’alleato capo” fa un uso decisamente nazionalistico.

 

Questa tensione tra le due sponde dell’Atlantico apre una contraddizione pesante all’interno degli Stati Uniti. Le grandi reti di spionaggio elettronico-informatico costruite nell’ultimo ventennio, con la messa al lavoro “militare” di tutte le grandi aziende statunitensi del settore (da Microsoft a Google, da Apple all’Ibm, da Facebook a Skype), sono figlie di un’idea “autocentrata” del sistema delle relazioni internazionali. Secondo cui, semplicemente, gli Stati Uniti possono fare ciò che vogliono senza redere conto a nessuno. Nemmeno agli alleati più fedeli.

 

Vero è che quest’idea è “bushiana”, ma è altrettanto vero che Obama, nei primi cinque anni di presidenza, non ha modificato di un millimetro questo schema.

 

Ora, nel mondo, si parla di “servizi segreti Usa fuori controllo”. Ovvero di apparati talmente potenti e autosufficienti (sul piano delle decisioni, non su quello finanziario) da muoversi al di fuori anche del controllo presidenziale; ovvero del potere politico. Può darsi che sia così, anche se ci sembra difficile; ma è indubbio che il confine tra l’”interesse pubblico” e gli affari privati, anche all’interno dell’intelligence più “delicata” è stato negli Usa valicato più volte. Basti ricordare che, in fondo, la “talpa” Edward Snowden è riuscito a cumulare una massa spaventosa di informazioni secretate pur essendo soltanto un “collaboratore esterno” di una società privata che fornica conselenze tecniche alla Nsa.

 

La stessa facilità spensierata con cui la Nsa ha proceduto a mettere sotto controllo ben 35 leader mondiali (quasi tutti “amici”, par di capire, visto che Russia e Cina non hanno aperto bocca sulla vicenda) torna ora come un boomerang sulla Casa Bianca. Costringendola a metter mano a quella “riorganizzazione” e gerarchizzazione dei servizi di intelligence. E quindi a inaugurare un nuovo terreno di scontro con i repubblicani.

 

“E’ nostro interesse mantenere con i nostri partner legami stretti sul fronte dell’economia e della sicurezza, i più stretti possibile”, ha detto Jay Carney, portavoce del presidente.

 

La situazione deve essere in parte sfuggita di mano all’amministrazione Obama, si pensa sia negli Usa che in Europa. Ed è già una lettura “accomodante”, molto diplomatica, della tensione in corso. È insomma una lettura che dà per scontato un Obama “buono” e progressista, che non è ancora riuscito a prendere il controllo di servizi segreti strutturati e in qualche misura ancora telecomdndati dalla destra statunitense.

 

“I servizi segreti Usa sono fuori controllo”, dice esplicitamente il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz. E non bastano più le rassicurazioni generiche. Merkel e gli altri leader ‘spiati’ pretendono ora passi concreti da parte dell’amministrazione americana. “Il presidente comprende le preoccupazioni sollevate”, e per questo, ha detto Jim Carney, “ha avviato una revisione che è in corso”. Che coinvolge non solo le “teste” al vertice delle varie agenzie di spionaggio, ma anche i metodi di raccolta delle informazioni; ed i limiti che devono esser posti alla raccolta nel caso di paesi alleati. Molte chiacchiere, probabilmente, perché tanto l’ideologia America first presuppone “mani libere” nei confrnti di tutti (come hanno potuto sperimentare diversi ex alleati degli Stati Uniti, specie in Medio Oriente). Ma qualcosa deve esser fatto, oltre che detto, per ricostruire un “clima di fiducia” tra partner imperialisti. La concorrenza di Cina, Russia e altre aree economico-monetarie è tale da non consentire di protrarre a lungo il momento di crisi diplomatica.

 

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