Dopo 13 anni di ingiusta detenzione, Alberto Patishtán, figura emblematica della lotta dei detenuti politici messicani, ha finalmente riconquistato la libertá. Nel pomeriggio del 31 ottobre, gli é stato notificato un indulto presidenziale che ha sancito la vittoria del variegato movimento che da anni si batte per sua liberazione, mettendo fine alla condanna di 60 anni che stava scontando nel carcere numero 5 di San Cristobal de la Casas in Chiapas.
Arrestato con l’accusa di essere il responsabile della strage di Simojovel, che nel giugno del 2000 provocó la morte di 7 poliziotti, il maestro tzotzil aderente alla Sexta zapatista é divenuto nel corso degli anni di reclusione un simbolo della battaglia delle tante vittime dell’ingiustizia che caratterizza il sistema giuridico messicano, il quale si accanisce contro indigeni e poveri lasciando nella maggioranza dei casi impuniti i crimini legati alle classi dirigenti e al narcotraffico.
Il caso di Patishtán, per dirla con il suo avvocato Leonel Rivero, rappresenta “il fallimeno del Potere Giudiziario della Federazione” che si é dimostrato incapace di riconoscere i propri errori ed ha confermato in piú occasioni una sentenza sorta da un processo pieno di irregolaritá nel quale sono stati violati i piú elementari diritti della difesa e che, in quanto tale e alla luce delle nuove norme sul “giusto processo”, avrebbe dovuto essere invalidata. Al contrario, sia la Suprema Corte, che il Primo Tribunale Collegiale di Tuxla Gutierrez (ultima istanza nell’ambito del sistema giuridico nazionale) hanno evitato di prendersi la responsabilitá di invalidare il processo dichiarando infondata la richiesta di scarcerazione presentata dalla difesa, alla quale sono rimaste cosí solo le istanze internazionali per mettere in discussione la condanna, in primis, la Corte Interamericana dei Diritti Umani.
Laddove non é arrivato il potere giudiziario, peró, sotto la pressione delle mobilitazioni che dentro e fuori i confini nazionali hanno continuato a chiedere la liberazione del maestro, é giunto il parlamento. Il quale, il 28 ottobre, ha modificato il Codice Penale Federale introducendo l’articolo 97 bis, che dá al presidente la possibilitá di concedere l’indulto in maniera unilaterale ai detenuti che siano stati vittime di “gravi violazioni dei diritti umani”, in particolare, quelli ad un processo giusto e ad una difesa adeguata.
Sebbene siano tardivi e rappresentino il tentativo di capitalizzare da un punto di vista mediatico la popolaritá di Patishtán in una fase in cui repressione e arresti sembrano essere le uniche risposte che le autoritá sono in grado di dare alle proteste sempre piú frequenti nel paese, la legge e l’indulto rappresentano senza dubbio un’importante vittoria non solo perché mettono fine ad una prigionia durata troppo a lungo, ma anche perché aprono alla possibilitá che le migliaia di casi simili che popolano le carceri messicane possano trovare soluzione. Secondo dati della Camera, infatti, sono almeno 8 mila i detenuti indigeni che si trovano dietro alle sbarre perché non hanno avuto una difesa adeguata (la mancanza di un traduttore, per esempio, é assai comune, tanto che in molti si trovano dietro le sbarre senza nemmeno conoscere i propri capi d’imputazione).
Certo, ottenere la liberazione attraverso il perdono presidenziale, per quanto unilaterale esso sia, puó produrre reazioni ambivalenti in chi, oltre ad essere certo della propria innocenza, l’ha anche dimostrata. Inoltre, come sostengono Amnesty International, il Centro Frayba e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani, allo stato toccherebbe riconoscere l’innocenza del maestro, scusarsi pubblicamente per le ripetute violazioni dei suoi diritti umani e risarcire il danno provocato. Tuttavia, dato anche il peggioramento delle condizioni di salute di Patishtán, il cui adenoma all’ipofisi é tornato a crescere, l’obiettivo principale, cioé costringere le autoritá a farlo uscire di galera il prima possibile, é stato raggiunto e sará difficile per governo e mass media trasformare questa vittoria in una concessione di Peña Nieto.
Subito dopo la consegna del documento di indulto da parte di un funzionario del ministero degli interni, Patishtán é uscito dall’Istituto Nazionale di Neurologia Manuel Velasco Suárez in cui é ricoverato al sud della capitale insieme ai figli Hector e Gabriela e alla nipotina Genesis. Attorno alle 15 ha tenuto una conferenza stampa che si é presto traformata in un gioioso atto politico in cui il professore, dopo essere stato salutato da canti, slogan e pugni chiusi dai compagni e le compagne presenti ed aver ricevuto machete e pallacate come simboli della resistenza e della lotta del popolo messicano da Felipe Alvarez e Nacho del Valle, del Frente de Pueblos en Defensa de la Tierra, ha raccontato la sua odissea giudiziaria, mettendo in evidenza come egli sia una delle tante vittime di quelle che Raul Vera, vescovo da sempre vicino ai movimenti, definisce “condanne prefabbricate”, fatte cioé per dare un capro espiatorio all’opinione pubblica ed, allo stesso tempo, eliminare un oppositore scomodo. In seguito, visibilmente emozionato, il professore ha parlato delle dure condizioni di prigionia a cui é stato sottoposto, sottolineando che oblio e discriminazione, nelle carceri del paese, sono una costante per i poveri e gli indigeni. Infine, alla domanda su cosa fará nel prossimo futuro, Patishtán ha risposto che, al momento, la battaglia piú importante é quella che sta combattendo per recuperare la sua salute, tuttavia, é sicuro che da uomo libero non smetterá di lottare per chiedere la liberazione dei detenuti politici e per la giustizia sociale nel paese.
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