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Cile al voto. Senza illusioni e senza entusiasmo

Aggiornamento (lunedì 18 novembre)

Com’era prevedibile, il popolo cileno sembra poco interessato alla politica istituzionale, disilluso dalle aderenze tra i maggiori schieramenti politici che tranne che in pochi casi propongono una visione simile della società e dell’economia. Neanche l’ingresso dei comunisti dell’icona internazionale Camila Vallejo è riuscita a mobilitare l’elettorato. Alla chiusura delle urne ieri sera alle 18 – erano le 22 in Italia – al voto erano andati solo 6,65 milioni di cileni sui  13,5 milioni di aventi diritto, meno del 50% nonostante si votasse anche per il rinnovo del parlamento oltre che per le presidenziali. Neanche l’iscrizione automatica di tutti gli aventi diritto nelle liste elettorali – prima occorreva iscriversi – ha portato ad un amento della partecipazione alle elezioni, anzi la quota di votanti è calata di parecchi punti rispetto alle scorse tornate elettorali.

L’ex presidente socialista Michelle Bachelet non è riuscita a spuntarla al primo turno, ed ha ottenuto poco più di 3 milioni di voti, il 46,7% dei suffragi. La sua principale sfidante, la post-pinochetista Evelyn Matthei, ha raggiunto un disastroso 25% (1,6 milioni di voti), qualcosa in più di quanto le concedevano i sondaggi ma comunque una quota minima. E lo scarso entusiasmo per le due coalizioni tradizionali dello scenario politico cileno non ha portato ad un voto di protesta nei confronti dei candidati ‘più a sinistra’ della Bachelet come Marco Enriquez (Partido Progresista, 11%, quasi la metà della volta scorsa) o Marcel Claude, o più a destra della Matthei come Franco Parisi (10%); tutti assieme i candidati outsider ottengono un 30%, ma nessuno di loro emerge come possibile alternativa al centrodestra o al centrosinistra.

Tra un mese il ballottaggio, il 15 dicembre prossimo. Intanto ieri, durante le operazioni di voto, alcune decine di studenti hanno occupato per alcune ore uno dei centri elettorali della coalizione di Michelle Bachelet. Non è ancora presidente ma la mobilitazione studentesca contro il suo governo è già iniziata.

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L’articolo (17 novembre 2013)

Oggi il popolo cileno è chiamato alle urne per scegliere il futuro presidente della repubblica. O meglio, la presidente, visto che a scontrarsi sono la socialista Michele Bachelet e la post-pinochetista Evelyn Matthei. La prima è superfavorita, e il dubbio sta solo nel carattere della sua vittoria: se al primo turno, già stasera, oppure dopo il ballottaggio. In ballo ci sono anche tutti i seggi della Camera dei deputati e un terzo di quelli del Senato.

Per la prima volta potranno votare anche quattro milioni di nuovi elettori, per lo più giovani, visto che da questa tornata in poi l’iscrizione alle liste elettorali è automatiche e non più volontaria come in passato. I sondaggi non lasciano molti dubbi: Bachelet è accreditata del 47-48% delle intenzioni di voto, Matthei solo del 14-15%. Ma non è detto che la vittoria della candidata del centrosinistra alle presidenziali sia accompagnata da una affermazione altrettanto forte dei partiti che la sostengano alle legislative. Il sistema elettorale cileno, figlio della dittatura di Augusto Pinochet, è infatti assai astruso e binominale, e prevede l’elezione di due parlamentari per ogni distretto elettorale. Il che vuol dire che in molti collegi, nonostante l’enorme differenza di consensi, si assegneranno un deputato al centrosinistra e uno alla destra, falsando enormemente la composizione della Camera.

 

Alla grande stampa internazionale piace sottolineare che entrambe le candidate sono figlie di generali. La Bachelet di uno che fu fedele al presidente Salvador Allende e per questo fu arrestato e torturato dai golpisti fino alla sua morte per arresto cardiaco, nel marzo del 1974. La seconda, invece, è figlia di un militare fascista che aderì convintamente alla dittatura ed è stato accusato di aver avuto responsabilità dirette nella morte di Alberto Bachelet, la cui figlia fino al settembre del 1973, prima che il golpe stroncasse con la violenza il governo di sinistra, giocava ignara insieme a Evelyn Matthei.

Alla grande stampa internazionale, soprattutto a quella ‘progressista’, piace anche sottolineare un ritorno del Cile a sinistra che però non ci sarà affatto. La Bachelet potrà anche stracciare la sua avversaria, ma ampi settori della società cilena sono ormai assai disillusi sul fatto che la candidata della Concertaciòn – coalizione di centrosinistra allargata questa volta ai comunisti con il nome di ‘Nueva Mayoria’ – possa interrompere o mutare significativamente una politica liberista ed escludente del governo di destra uscente che ha provocato un ampio conflitto sociale. In particolare un movimento degli studenti sceso in piazza in maniera spesso contundente a favore di una riforma democratica del sistema d’istruzione – che è lo stesso dei tempi di Pinochet, come quello elettorale – e che ha dato filo da torcere a Sebastian Pinera e ai suoi ministri, molti dei quali costretti a dimettersi sotto l’onda delle proteste.

Proteste che, allargate in alcune fasi a settori giovanili in preda alla precarietà e ad alcuni comparti della classe lavoratrice più combattiva, non hanno solo manifestato contro le politiche del governo di destra, ma anche contro le complicità della Concertaciòn, non risparmiando alla Bachelet feroci critiche. D’altronde la candidata socialista non è propria una neofita della politica: ha già ricoperto la carica di presidente del Cile dall’11 marzo 2006 all’11 marzo 2010, e prima era stata Ministro della sanità e addirittura Ministro della difesa nel governo del discusso e discutibile Ricardo Lagos (anch’egli socialista). Ultimamente ha generato nuove aspre critiche a causa di una sua infelice uscita sul popolo Mapuche che rivela quanto anche la classe dirigente del centrosinistra consideri i popoli originari del paese un problema, un corpo estraneo.

La Bachelet e la sua coalizione si presentano agli elettori con un programma non molto definito e comunque non dissimile, almeno ideologicamente, da quello della controparte che pure non fa mistero di rivendicare i successi ottenuti negli ultimi anni, in continuità con le politiche turbo-liberiste e autoritarie dei tempi della dittatura, quando a gestire l’economia c’erano i Chigago Boys e i manager istruiti sulle politiche della signora Thatcher. La propaganda della signora Matthei parla di un Cile in crescita: stando ai numeri in 20 anni la classe media sarebbe diventata addirittura il 65% della popolazione, i conti del paese sarebbero in ordine ed oggi Santiago potrebbe rivendicare stabilità e progresso. Ma a ben guardare il Cile è uno dei paesi di tutta l’America Latina con più disuguaglianze, spesso istituzionalizzate da leggi risalenti all’epoca della dittatura e mai cambiate, all’interno di un modello di continuità tra regime fascista e democrazia incompiuta molto simile al cosiddetto processo di riforma che portò la Spagna franchista alla monarchia costituzionale. L’unica differenza è che Franco morì nel suo letto e il regime venne trasformato dall’interno per adattarsi alle nuove forme istituzionali richieste dall’integrazione nell’Unione Europea, mentre Pinochet ha dovuto mollare il potere diretto che ha esercitato dal 1973 al 1990 ma mantenendo comunque per anni un controllo sostanziale su istituzioni ereditate dalla dittatura e complementate pian piano da un personale politico di centrosinistra arrendevole e compromesso.

 

Alle scorse elezioni gli elettori di sinistra punirono il centrosinistra e il suo programma fotocopia rispetto alla destra, ma questa volta dopo anni di crisi e conflitti il Cile ha voglia di voltare pagina rispetto all’imprenditore liberista e autoritario Sebastián Piñera. Per accrescere l’impatto parlamentare e sociale delle sue liste la Concertaciòn – il centrosinistra imperniato sulla DC e sul PS – ha deciso di includere anche il Partito Comunista, che può contare su un 4-5% e su un discreto insediamento in alcuni settori del mondo giovanile e di quello del lavoro. Se la Bachelet vincerà oggi al primo turno il partito riunirà il proprio comitato centrale tra una settimana per definire le modalità del suo ingresso all’interno di un governo di centrosinistra allargato. I comunisti tornerebbero così a far parte di una maggioranza governativa dopo 40 anni da quel 1973 quando l’esecutivo Pinochet venne travolto dai carri armati e dalle esecuzioni di massa.
Ma lo scetticismo su un eventuale nuovo governo del genere è assai diffuso a sinistra e nei movimenti sociali. Per molti la sconfitta auspicabile della destra legata all’oligarchia di nostalgie pinochetiste non significherà affatto la fine dell’egemonia sociale e politica sulla quale questi settori reazionari possono contare. Anche perché la destra economica include ampi spezzoni della coalizione di centrosinistra, che non hanno nessuna intenzione di attaccare un modello economico basato sul protagonismo dei soggetti privati e sull’esclusione sociale dai servizi e dalla distribuzione della ricchezza. Una crescita che, per dirla come gli studenti scesi in piazza in questi anni, non porta sviluppo e anzi tendenzialmente spinge in basso la stragrande maggioranza della popolazione, anche quella che secondo i dati macroeconomici viene considerata classe media ma che non percepisce più di 400 euro di salario o pensione al mese (il 70% della popolazione).
L’accesso della popolazione ad alcuni servizi sociali fondamentali come istruzione e sanità sono basati, così come nel modello statunitense, sul credito bancario ai clienti/consumatori, il che provoca l’indebitamento a vita di milioni di famiglie e l’oscillare della qualità dei servizi stessi sulla base dell’andamento del mercato e dei prezzi. Rispetto a un modello inumano come questo l’unica cosa che Michelle Bachelet è stata in grado di dire è che bisognerebbe estendere il credito bancario anche ad altri servizi e prodotti. 

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