Dopo il voto della scorsa settimana che ha ridato la maggioranza a Erdogan e ai liberal-islamisti dell’Akp, la guerriglia del Partito dei lavoratori del Kurdistan ha minacciato nei giorni scorsi di proclamare l’autonomia delle regioni curde nel sud-est della Turchia se il governo non farà decisivi passi avanti nel processo di pace iniziato un anno fa ed entrato subito in stallo. La presa di posizione del gruppo armato arriva dopo le dichiarazioni del premier turco Recep Tayyip Erdogan che si è detto indisponibile a passare dalla trattativa segreta al negoziato pubblico, dando una copertura legale al dialogo come richiesto dal leader del Pkk Abdullah Ocalan lo scorso 21 marzo in un messaggio dal carcere diffuso in occasione del Newroz, il capodanno zoroastriano che in Kurdistan ha un valore altamente simbolico anche dal punto di vista politico.
Secondo il Pkk, che ha minacciato anche il ritorno alla lotta armata dopo circa un anno di cessate il fuoco rispettato più o meno integralmente, il primo ministro turco avrebbe usato a fini elettorali il negoziato nelle recenti consultazioni locali: “invece che per trovare una soluzione per la questione curda e il problema della democratizzazione, Erdogan ha adottato un atteggiamento che ha reso sempre più difficile proseguire nel processo di pace. Il negoziato va invece ripreso dandogli una copertura legale. Se non avverrà il popolo curdo prenderà in mano il proprio destino. Il popolo curdo deve essere autonomo” recita il comunicato diffuso sabato dal Pkk.
Di fronte alle inadempienze del governo rispetto alla tabella di marcia prefissata nell’ottobre scorso il negoziato si era di fatto interrotto quasi del tutto, con la guerriglia curda che decise di interrompere il ritiro di migliaia di combattenti verso le regioni curde dell’Iraq settentrionale.
Ma non sembra proprio che i pensieri del ‘sultano’ Erdogan siano in questi giorni per la soluzione del conflitto con i curdi. Semmai le sue attenzioni sono dedicate ai suoi nemici interni all’apparato politico e istituzionale turco, in particolare quelli che fanno riferimento all’imprenditore-predicatore Fethullah Gulen. Recep Tayyip Erdogan ha giurato di finirla una volta per tutte con l’organizzazione del suo ex alleato promettendo che, alla ripresa dell’attività parlamentare, “tutti i colpevoli saranno perseguiti”. “Il nostro popolo ha rinnovato la sua fiducia al nostro governo. E cosa più importante, il nostro popolo ci ha dato l’ordine di lottare contro la struttura parallela” ha detto Erdogan nel suo primo discorso ai deputati del suo partito dopo la vittoria alle elezioni municipali del 30 marzo.
Il premier ha dichiarato guerra alla confraternita dell’imam ‘esiliatosi’ negli Stati Uniti dalla fine degli anni ’90 dopo la maxiretata che a dicembre portò all’arresto di esponenti politici dell’Akp, di imprenditori e funzionari contigui al governo e allo stesso Erdogan. Una maxi inchiesta per corruzione che l’esecutivo ha cercato in tutti i modi di bloccare imponendo il controllo politico del Csm, destituendo o trasferendo migliaia di poliziotti e magistrati, aumentando la censura sui media e su internet, fino alla chiusura di Twitter e Youtube.
Erdogan accusa il movimento, a capo di una fitta rete di scuole private e di imprese, e molto potente nelle polizia e nella magistratura, di aver fabbricato le accuse e, dopo le purghe operate dal governo nei confronti degli inquirenti, di aver inondato internet con registrazioni compromettenti.
“Hanno illecitamente intercettato migliaia di persone (…) tutti i colpevoli saranno perseguiti” ha detto Erdogan, “la storia politica non dimenticherà mai questa vigliaccheria, questi attacci inumani, questi tradimenti”. “Ci appelliamo a tutte le vittime di ricatto (da parte della confraternita di Gulen) di informarci senza paura nè esitazione” ha concluso il premier.
E due eventi, di diversa natura, lascerebbero credere che il governo sta tramutando in atti concreti le chiare ed esplicite minacce di Erdogan. Martedì scorso otto poliziotti di cui due ufficiali sono stati fermati ad Adana, nel sud della Turchia, in un’operazione presentata dalle stampa come diretta contro il movimento di Gulen.
Invece oggi Kemal Kilicdaroglu, il leader della principale forza di opposizione – Il Partito Repubblicano del Popolo – è stato aggredito all’interno del parlamento da uno sconosciuto che gli ha tirato due pugni al volto. L’autore dell’assalto, le cui motivazioni non sono immediatamente chiare, è stata bloccato dalle guardie del corpo di Kilicdaroglu e condotto a un posto di polizia per essere interrogato. Nessuna seria conseguenza per Kilicdaroglu, ma l’avvertimento sembra più che chiaro.
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