Chi pensa che le petromonarchie arabe costituiscono un blocco unico e granitico sbaglia, e di molto. Da tempo ormai la spaccatura tra Qatar da una parte ed Arabia Saudita, Emirati Arabi uniti e Bahrein dall’altra sembra approfondirsi, nonostante il tentativo di regolare i contenziosi tramite il recente Accordo di Riad. Il rapporto che sta ultimando l’Arabia Saudita e che sarà presentato oggi al vertice di Gedda, anziché suggellare l’accordo raggiunto lo scorso aprile, potrebbe invece “esacerbare la situazione” come ha constatato nei giorni scorsi una fonte saudita al quotidiano Al-Ray del Kuwait, emirato che in questi mesi ha tentato di assumere un ruolo di mediazione.
Gli attriti tra le quattro monarchie feudali della penisola arabica si erano già intensificati lo scorso anno quando il Qatar è stato accusato di interferire pesantemente nelle questioni interne degli altri paesi, oltre che di essere troppo estremista nel finanziare gruppi jihadisti e leader religiosi schierati spesso contro gli interessi e le decisioni di Riad e soci.
La spaccatura tra i quattro Paesi si era consumata in particolare sull’Egitto, con il Qatar che appoggiava i Fratelli Musulmani e il presidente Morsi mentre le altre tre petromonarchie sostenevano i militari. La frattura si è allargata quando Doha ha accresciuto il proprio sostegno anche alle forze jihadiste attive nel conflitto siriano e in Iraq.
Si era tentata la via diplomatica e un primo accordo mirante a far allineare il Qatar alle politiche regionali era stato raggiunto nel novembre dello scorso anno ma poi già a marzo Arabia Saudita, Emirati e Barhein hanno formalmente ritirato i propri ambasciatori da Doha. Mossa inedita per gravità e pubblicità dalla fondazione del blocco del Golfo, nel 1981. Un nuovo accordo raggiunto il mese successivo vedeva i primi passi dell’annunciato impegno del Qatar di abbassare i toni delle sua emittente satellitare Al Jazeera, considerata a ragione un potente strumento di ingerenza negli affari interni degli altri paesi del mondo arabo.
Il piccolo ma sempre più influente emirato ha accresciuto il proprio potere sfruttando le conseguenze delle cosiddette primavere arabe, orientandole verso i propri interessi e verso soluzioni islamiste radicali grazie ad Al Jazeera. Nel frattempo Doha si è trasformato rapidamente nel protettore della Fratellanza Musulmana dall’Egitto fino ad Hamas in Palestina, dal Fronte Islamico in Giordania fino ai Fratelli Musulmani siriani impegnati contro il governo. Spiega Maurizio Molinari in un recente articolo pubblicato su La Stampa: “Il Qatar è così divenuto il punto di riferimento dei gruppi ribelli sunniti che, in più Paesi, si battono contro despoti e monarchi. È tale posizione che ha portato Doha a diventare la capitale che – assieme a Kuwait City – ospita le maggiori raccolte di fondi anche a favore dello Stato Islamico (Isis) del «Califfo Ibrahim» Abu Bakr Al Baghdadi. Al tempo stesso il Qatar vanta una politica estera di alto profilo con gli Stati Uniti – ospitando il comando delle truppe Usa in Medio Oriente – e con la Cina a cui ha iniziato questo mese a vendere gas liquido sulla base di un contratto che prevede 2 milioni di tonnellate di forniture annue”.
Al contrario Riad, che pure sostiene varie organizzazioni e gruppi fondamentalisti sunniti e anche della galassia jihadista, formalmente ha siglato un patto di ferro con il regime egiziano che lega anche tutti gli altri paesi arabi sunniti che si oppongono tanto alla «Mezzaluna sciita» guidata dall’Iran che alla galassia islamista sostenuta dal Qatar. Spiega ancora Molinari: “Il presidente egiziano Al Sisi e il re saudita Abdullah possono contare anzitutto sugli Emirati del Golfo – Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Oman – assieme allo Yemen e, in Nord Africa, ad Algeria e Marocco. È uno schieramento di capitali accomunate dal timore dell’egemonia di un Iran nucleare sul Golfo Persico e dalla paura per sommovimenti interni guidati da gruppi come Isis, Jubat Al Nusra e le milizie jihadiste libiche. All’interno della Lega Araba sono posizioni di maggioranza, che si articolano in politiche differenti. Nei confronti dei gruppi jihadisti, come i Fratelli Musulmani, la scelta del Cairo e di Riad è la più dura repressione mentre per fronteggiare l’Iran nucleare l’unica carta a disposizione ce l’hanno i sauditi, grazie alle armi atomiche che – secondo la tv Bbc – avrebbero già «acquistato» negli arsenali pachistani”.
E’ in questo quadro che l’Egitto di Al Sisi, secondo il giornale saudita Al-Watan, starebbe discutendo con altri Paesi arabi la possibilità di «intervenire in Siria per sostenere i gruppi ribelli anti-Assad spingendoli anche a combattere l’Isis».
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