In Ucraina si spara e si tratta. Si spara di meno o di più a seconda dell’andamento delle trattative, e a volte una delle parti rimanda le trattative quando ottiene risultati sul fronte militare per poter tornare a discutere con la controparte da una posizione migliore.
Fatto sta che l’accordo stipulato a Minsk, insieme alla fine dei combattimenti e al ritiro di tutte le forze militari straniere, prevede in particolare la creazione di una cosiddetta ‘zona cuscinetto’ larga una trentina di chilometri a cavallo del fronte che da mesi vede impegnate le milizie popolari del Donbass- ormai costituitesi nell’Esercito della Novorossija – e le forze armate ucraine supportate dai battaglioni punitivi formati da sbandati e volontari delle organizzazioni nazionaliste e di estrema destra.
Ammesso che le parti continuino ad essere d’accordo sulla creazione della ‘zona cuscinetto’ – difficile da realizzare finché durano i combattimenti – il problema è dove fissare un confine tra i due territori, il primo sottoposto all’autorità di Kiev e l’altro di Donetsk. I problemi non sono pochi: la linea del fronte si sposta in continuazione viste le sortite di entrambe le parti contro le postazioni nemiche; e poi il regime nazionalista di Kiev non riconosce alcuna sovranità ai cosiddetti ‘secessionisti’, che da parte loro tendono a chiarire ogni giorno che la Novorossija non è più da considerarsi territorio ucraino.
Comunque, per ora, entrambe le parti sembrano impegnate a ritirare dal fronte la propria artiglieria pesante, ottemperando a uno dei 9 punti firmati del patto firmato sabato scorso a Minsk tra i rappresentanti del Donbass insorto e quelli di Poroshenko (da cui prendono le distanze in modo sempre più esplicito vari oligarchi e leader del panorama nazionalista ucraino, dall’estrema destra di Pravyi Sektor fino a Tymoshenko e Yatseniuk). Dalle notizie rilanciate da entrambe le parti, il ritiro dell’artiglieria pesante sarebbe iniziato ad entrambi i lati della “frontiera” tra Repubbliche Popolari e Ucraina per circa una quindicina di chilometri, allo scopo di creare appunto una ‘fascia di sicurezza’ dove comunque rimangono ammassate truppe e armamenti di vario tipo, in attesa che a supervisionare la smilitarizzazione arrivino gli ispettori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), organismo affatto neutro ma i cui esponenti sul campo si sono trovati spesso in disaccordo con le versioni ufficiali fornite dal regime di Kiev e dai governi che lo spalleggiano. Le milizie popolari hanno cominciato a ritirare la loro artiglieria dalla linea di contatto con le truppe ucraine. “Abbiamo ritirato la nostra artiglieria nella zone dove le forze ucraine regolari hanno fatto lo stesso. Nei luoghi in cui l’artiglieria ucraina non si è ritirata, non lo abbiamo fatto neppure noi”, ha dichiarato Aleksandr Zakharcenko, premier della repubblica di Donetsk. Un annuncio analogo era stato realizzato ieri dal portavoce del Consiglio di sicurezza ucraino, Andrej Lisenko.
Prosegue anche, seppure a rilento, lo scambio dei prigionieri. Secondo l’agenzia russa Itar-Tass negli ultimi giorni 132 di loro sarebbero tornati rispettivamente a Kiev o a Donetsk e Lugansk. E secondo la responsabile del comitato dei prigionieri di guerra della repubblica di Donetsk, Daria Morozova, un altro scambio dovrebbe avvenire domani.
In questo clima si inserisce la mossa dei governi delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, che oggi hanno annunciato di aver convocato per il prossimo 2 novembre le loro elezioni per il rinnovo del consiglio supremo (equivalente al parlamento regionale) e per i capi delle due entità. Un ‘no’ netto al piano dell’oligarca ucraino Poroshenko che aveva programmato elezioni locali nel Donbass il prossimo 7 dicembre, per riportare la regione sotto l’autorità di Kiev all’interno di una forma statale maggiormente federale che gli insorti hanno respinto e che comunque è da subito apparsa assai fumosa, più simile a una trappola che ad un reale tentativo di riconciliazione. Le autorità dei territori insorti hanno anche fatto sapere che nel Donbass non si svolgeranno le elezioni legislative nazionali previste per il 26 ottobre in tutta l’Ucraina.
Agli scontri politici e diplomatici, e nonostante i progressi nella trattativa in corso tra le due parti – e tra il fronte Usa-Ue da una parte e la Russia dall’altra – la cronaca militare continua a fornire nuovi elementi.
Dopo 24 ore di relativa quiete seguite alla firma, sabato, del secondo protocollo di Minsk, domenica in alcune zone del Donbass sono ripresi i combattimenti, mentre ieri colpi di mortaio ed esplosioni varie hanno colpito Donetsk nei distretti di Petrovsky e Kirovsky, già martellati dall’artiglieria ucraina nei giorni precedenti. E sempre domenica, mentre il terzo convoglio di camion carichi di aiuti russi inviati da Mosca era quasi arrivato in prossimità della città industriale insorta, gli ucraini hanno lanciato due missili contro alcuni magazzini pieni di prodotti chimici, provocando una enorme esplosione e la diffusione di una nube tossica.
Si tratta comunque di violazioni di gravità minore rispetto a quelle registrate nelle scorse settimane, che hanno convinto un numero crescente di profughi rifugiatisi nelle regioni russe di confine con il Donbass a tornare a casa, nella speranza di poterci rimanere e di non dover scappare di nuovo (anche se secondo alcune fonti il 30% di loro è intenzionato a rimanere in Russia).
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