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Morti, Invisibili e donne del Sahel

Lo hanno chiamato Ramses che forse era un faraone nero. Faceva il militare di carriera nel suo paese. Uno di quelli che cingono il Sahel come un  manto dorato di sabbia e savana. Non sapeva che lo avrebbero destinato a torturare i dissidenti e i criminali comuni. Non sospettava che la prigione si trovasse nascosta nel palazzo del presidente. Pensava di fare carriera come un comune militare che si riempie di gloria sui campi di battaglia creati dai potenti. Era fiero del suo mestiere e dell’altro che aveva imparato negli anni. Muratore e imbianchino per sopravvivere caso mai arrivi la pace. Lo hanno portato dove non sapeva. Ha visto e imparato come torturare gli uomini. Quindici il primo giorno e dieci il secondo. Con le macchine elettriche e con piastre roventi che fungevano da pressatoio. Ramses ne ha avuto abbastanza perché non si credeva più umano neppure lui. E’ fuggito dalla tortura col terrore di essere lui stesso torturato. Nessuno doveva sapere, neppure lui.
Continuano a morire lontano dalla capitale. Lontano dai riflettori dei media. Lontano dai centri di potere. Muoiono uccisi lontano alla frontiera. Si muore sempre alla frontiera di qualcosa o di qualcuno. Uccisi dalla mano armata di Boko Haram. I massacri erano iniziati a Bosso e poi a Diffa. Una bomba di un aereo non ancora identificato ne ha uccisi 39 ad Abadam. Poi ancora 9 e almeno 7 a Karounga sul lago Tchad. Due sono saltati su una bomba e di loro non si sa nulla. Ci si è stancati dei lutti nazionali perché sarebbe come un calendario funebre permanente. Per i poveri non c’è né  tempo né spazio, a parte i cimiteri. L’unica marcia cittadina è costata qualcosa come un miliardo di franchi locali. Bisognava pagare molti perché marciassero e altri perché andassero a morire per la patria. Lontani dagli occhi e dal cuore. I morti di Agadez, Arlit, della prigione civile di Niamey, di Tillabery e di quelli sconosciuti perché lontani. E anche lontani perché sconosciuti.
Mamadou e suo fratello Coulibay erano partiti e tornati assieme. Uno meccanico e l’altro commercialista di merci ancora inesistenti. Entrambi si sono venduti la motocicletta per pagarsi il viaggio fino in Algeria. Tornano con un paio di zaini, frastornati dalla polvere e dalle guardie di confine. Il poco che avevano per viaggiare è finito nelle loro tasche. Mancano i documenti oppure non sono in regola. Oppure sono a posto ma manca il certificato di vaccinazione. In ultimo mancherà sempre qualcosa, un visto di transito, un bollo o un certificato. Altri, per andare altrove si erano venduti la casa, i terreni, gli affetti e il passato. Si giocano tutto per un viaggio senza fine. I bambini stanno nel mezzo e le donne incinte tessono precari migranti da esportazione. Ogni tanto qualcuno è deportato da un’altra parte oltre il confine. E torna al mittente non appena cambia la direzione del vento. C’è poi chi non ha più nulla da vendere e proprio allora comincia a viaggiare.
Il mese di marzo ci sono le donne. Per le ONG è una bella occasione per fare le magliette ricamate di colori. Per quelle sotto il titolo di rifugiate c’è un vestito comune da esibire. Segue un brindisi con un discorso sull’importanza delle donne che quando se ne educa una si educa l’intera nazione. Per un giorno questo lo sanno tutti. Negli altri giorni ci si sposa presto e si comincia ancora prima a fare figli per mantenere alta la media nazionale. Nell’ultimo censimento del Niger le donne sono risultate più della metà della popolazione. La povertà tocca il 48% del paese ed è concentrata soprattutto nelle campagne. Le donne a morire di parto sono 535 su centomila e le ostetriche diplomate sono 879 in tutto. Per le donne la speranza di vita è di 60,5 anni. Uno in più degli uomini che a marzo le sposano dopo la festa.

                                                            Mauro Armanino, Niamey (Niger), marzo 2015

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