In tono dimesso, con una cerimonia pubblica presso il fiume Sumida con la partecipazione del premier Shinzo Abe, del principe ereditario Naruhito e del sindaco di Tokyo, il Giappone ha ricordato il 70º anniversario del bombardamento incendiario condotto sulla capitale durante la notte tra il 9 e il 10 marzo 1945 dagli aerei degli Stati Uniti. Il più letale dell’intero secondo conflitto mondiale, anche di più dei due bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki che vennero cancellate dalla mappa insieme ai loro abitanti. Il numero dei civili uccisi, oltre 100.000, superò quello delle vittime di Dresda.
“Fu un mare di fuoco” ha raccontato al Japan Times Saotome Katsumoto, che all’epoca aveva 12 anni e che ha dedicato gran parte della sua vita a ricordare questo tragico evento, che passa sempre in secondo piano quando si parla dei grandi massacri del secondo conflitto mondiale. Era stata da poco superata la mezzanotte, quando 330 B-29 degli Stati Uniti iniziarono a lanciare bombe al napalm e bombe incendiare al fosforo bianco sulla capitale nipponica.
Nei bombardamenti di Tokio venne colpita e distrutta in particolare la città vecchia, formata in buona parte di edifici in legno. Il bombardamento provocò non solo la distruzione pressoché totale degli edifici e la morte immediata di decine di migliaia di abitanti, ma le conseguenze nei giorni successivi sulla popolazione colpita dal fosforo furono drammatiche.
Tra i più lucidi testimoni delle conseguenze di quella tragedia presto dimenticata l’etnologo e scrittore italiano Fosco Maraini, che andò a Tokyo subito dopo la capitolazione giapponese, assieme alla sua famiglia (tra le figlie, Dacia Maraini). In “Ore giapponesi”, Maraini scrive: “Eppure non riesco a scacciare dalla memoria l’immagine di Tokyo come la vidi subito dopo la guerra, alla fine del 1945. Vi giunsi ai primi di settembre da Nagoya, poco dopo avere lasciato il campo di concentramento dove ero stato rinchiuso per due anni, con moglie e tre bambine. Lo spettacolo che mi accolse fu desolante, terribile”.
Al di là delle motivazioni ufficiali e della regioni belliche, a stupire ancora oggi l’opinione pubblica giapponese è l’apparente accanimento dei bombardieri americani verso la popolazione civile, che nei mesi successivi e fino all’olocausto nucleare avrebbe sperimentato la distruzione di una sessantina tra i maggiori centri abitati dell’arcipelago nipponico.
Una percezione giustificata, che risente però anche del clima di revisionismo storico perseguito dai governi nazionalisti in carica a Tokyo per buona parte del periodo post-bellico, e in parte di una scarsa informazione a livello nazionale delle conseguenze che l’imperialismo nipponico provocò in Estremo Oriente e dell’Asia meridionale tra il 1931 e il 1945.
A loro volta, gli Stati Uniti, alleati del Giappone da un settantennio, non hanno mai indicato alcun ripensamento ufficiale sulle azioni che hanno portato alla resa del Giappone, per essi motivate non solo dalla prospettiva inaccettabile di una conquista convenzionale dell’arcipelago che sarebbe costata un numero enorme di vite statunitensi, ma anche dal “tradimento” iniziale dell’attacco di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. Alla fine, le opportunità dell’antica alleanza e quelle delle nuove strategie congiunte tra Tokyo e Washington rendono le commemorazioni imbarazzanti finestre su un passato sempre più lontano e scomodo.
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