Una nuova strategia militare, che prevede una proiezione della propria marina nell’oceano aperto al di là dei confini marittimi prestabiliti e un rafforzamento della capacità di cyberwarfare dell’Armata del Popolo, è al centro del nuovo documento di dottrina strategica approvato all’inizio della settimana dall’Ufficio informazione del Consiglio di Stato cinese – di fatto l’esecutivo di Pechino – e diffuso dai media della Repubblica popolare. Il testo sottolinea la necessità di attuare una “protezione del mare aperto” piuttosto che la “difesa delle acque territoriali” e prevede di sviluppare una forza per “affrontare le gravi minacce legate alla sicurezza”. Tra queste, denuncia il documento, una destabilizzazione che le potenze occidentali hanno utilizzato finora a man bassa contro paesi poi gettati nella guerra civile come Siria e Ucraina. «Le forze anti-cinesi – recita il testo – non hanno mai smesso di cercare di istigare una rivoluzione colorata nel Paese».
Consta di 9mila caratteri il documento di strategia, il nono dal 1998, ma il primo a entrare così specificamente nel dettaglio della strategia militare di Pechino. Il documento parte da un principio: la Cina “non attaccherà a meno che non sia attaccata, ma certamente contrattaccherà, se attaccata”. Alla base della nuova dottrina c’è un approccio non più meramente difensivo, ma di difesa attiva che punta a “vincere le guerre locali informazionalizzate”.
“L’aggiustamento si è reso necessario in un momento in cui armi ed equipaggiamenti a lungo raggio, precisi, smart, invisibili e senza piloti sono diventati sempre più sofisticati e lo spazio esterno e il cyberspazio sono nuovi terreni di comando” spiega Yan Wenhu, un ricercatore dell’Accademia di scienza militare e dell’Armata del popolo cinese.
In particolare, la Marina cinese non si baserà più solo su una difesa “delle acque offshore”, ma di una combinata “difesa delle acque offshore e protezione dei mari aperti”. Proprio questo diverso approccio va a incrociarsi con uno dei temi più caldi sul piatto della politica asiatica: le rivendicazioni territoriali nel mar Cinese meridionale che oppongono Pechino e altri paesi come le Filippine o il Giappone, protagonisti a loro volta di un rapido processo di militarizzazione sostenuto dagli Stati Uniti che a ridosso dello spazio di Pechino hanno realizzato numerose nuove basi militari e spostato parecchie migliaia di soldati.
Sulla superficie del Mar Cinese Meridionale, di quello Orientale e in generale dell’Oceano Pacifico, il risiko delle potenze in competizione tra loro si fa sempre più teso, tra aerei spia, isole artificiali, manovre militari e accuse incrociate, con Pechino che nel suo nuovo ruolo di potenza regionale con proiezione mondiale rivendica l’80% di queste acque a scapito dei suoi vicini: Filippine, Vietnam, Malesia, Taiwan e Brunei, per citare solo quelli direttamente coinvolti in dispute territoriali con il gigante asiatico.
Lo scorso anno Pechino era arrivata ai ferri corti con il Vietnam per le isole Paracelso (e con il Giappone per le Senkaku). Adesso ha preso di mira le Isole Spratly, rivendicate anche dalle Filippine. Le tensioni hanno subito negli ultimi mesi una vera e propria escalation. Pechino ha infatti intensificato la costruzione di isolotti artificiali e di altre strutture fisse sulle coste dell’arcipelago conteso (secondo gli Stati Uniti, in 5 mesi la Cina ha quadruplicato la superficie artificiale nell’area). La tensione è salita il 20 maggio scorso, quando un caccia statunitense di pattugliamento ha sorvolato la zona a ridosso di un isolotto artificiale costruito dalla Cina, provocando la reazione della marina militare cinese.
Negli ultimi anni Pechino ha realizzato consistenti investimenti per rafforzare la sua marina, a partire dal riallestimento di una portaerei. Ma ora deve fare uno sforzo ulteriore, perché la Cina “sta affrontando sfide crescenti dal mare e il paese è più dipendente dalle risorse marittime e dall’energia” ha spiegato ai media Yu Miao, un altro ricercatore dell’Accademia delle scienze militari.
“La mentalità tradizionale per la quale il controllo della terra è più importante di quello del mare deve essere abbandonato, e grande importanza deve essere data alla gestione dei mari e degli oceani e alla protezione dei diritti e interessi marittimi”, si legge nel documento strategico del Consiglio di Stato.
Gli altri settori sui quali il documento si concentra sono quello del rafforzamento delle capacità di cyberwarfare per rispondere a “pesanti minacce alla sicurezza” e quello del nucleare, per il quale Pechino garantisce la contrarietà ad iniziare qualsiasi corsa agli armamenti.
E’ in questo clima che si terrà la conferenza annuale sulla sicurezza convocata a Singapore questa settimana e alla quale parteciperanno il segretario alla Difesa statunitense Ash Carter, l’ammiraglio cinese Sun Jianguo e i vertici militari di tutti i principali Paesi asiatici.
Già un mese fa, i leader dell’Asean (alleanza regionale asiatica che guarda a Washington) avevano sottoscritto una dichiarazione congiunta dai toni allarmati e decisi, nella quale, senza mai citare espressamente Pechino, manifestavano «seria preoccupazione» per le rivendicazioni territoriali nel Mar cinese meridionale, che «potrebbero compromettere la sicurezza e la pace nella regione».
Ricorda il Sole 24 Ore che negli ultimi 27 anni la Cina ha aumentato le spese per la difesa di circa il 10% l’anno. Dal 2003, l’incremento è stato complessivamente pari al 175%. Da parte sua il Giappone ha ormai esplicitamente messo in discussione il “pacifismo” della sua Costituzione postbellica cancellando o revisionando quegli articoli, imposti dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, che proibivano a Tokyo di mandare le proprie truppe oltreconfine. Con risultato che già all’inizio di luglio alcune decine di membri delle cosiddette ‘Forze di autodifesa’ giapponesi parteciperanno alle prossime manovre militari congiunte Stati Uniti-Australia. Le esercitazioni biennali Talisman Sabre, che saranno tenute in diverse località dell’entroterra australiano e delle sue coste e coinvolgeranno fino a 30.000 effettivi, comprenderanno una vasta gamma di situazioni belliche, incluse operazioni in mare, sbarchi, guerriglia e conflitto in aree urbane. Il tentativo da parte del governo nazionalista di Tokyo è quello di accreditarsi come un partner militare sempre più attivo degli Stati Uniti accentuando la competizione con Pechino. Intanto se a maggio le forze navali di Manila e Tokyo hanno tenuto le loro prime manovre congiunte si apprestano a farlo anche i vascelli da guerra malesi e statunitensi.
Anche altri paesi della regione hanno messo mano ai propri budget militari investendo crescenti risorse in armamenti. La spesa annua per la difesa sostenuta dai 10 Stati dell’Asean salirà a 52 miliardi di dollari in 5 anni, dai 42 attuali. E – su questo Pechino ci ha visto giusto – gran parte delle risorse stanziate andrà proprio alla Marina. La Malesia, per esempio, ha ordinato sei corvette (2,5 miliardi di dollari). Il Vietnam ha acquistato tre sottomarini di fabbricazione russa e ne ha commissionati altrettanti. Singapore, che ha già quattro sottomarini, ne comprerà altri due dalla Germania, mentre l’Indonesia ne ha ordinati tre dalla Corea del Sud. Nella lista della spesa compaiono anche mezzi anfibi in grado di trasportare carri armati, elicotteri e truppe. Le Filippine contano di ricevere 10 guardiacoste dal Giappone entro l’anno. Come avverte giustamente il quotidiano di Confindustria “se i costruttori come ThyssenKrupp o Daewoo possono brindare per le commesse in arrivo, il potenziamento delle flotte navali rende imprevedibili le conseguenze di eventuali incidenti in acque sempre più affollate”.
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