Una bomba, l’ennesima, che fa un morto e sei feriti. Piazzata stavolta sotto un’auto parcheggiata davanti al consolato italiano. In pieno centro del Cairo: El Galaa street, è sotto l’enorme via di scorrimento del 6 October Bridge, che dall’isola di Zamalek sul Nilo va verso nord della metropoli per poi virare a est. Un’arteria di scorrimento ad altissima intensità di percorrenza. Attorno c’è la vita commerciale: l’intera zona di Ramses, quella burocratica e amministrativa: la sede dell’Alta Corte, non lontano le Corniche col ministero degli Esteri e la televisione di Stato. L’ora della deflagrazione, le 6:30 del mattino, vede già un intenso traffico perché Il Cairo, come altre metropoli, non si ferma mai. Gli uffici del Consolato erano chiusi al pubblico. Chi ha piazzato l’ordigno voleva sicuramente intimidire, la capitale egiziana è da mesi oggetto di attentati, alcuni rivolti verso obiettivi (soprattutto militari, agenti di polizia e giudici), altri genericamente sparsi per la vita quotidiana: bus, strade, edifici pubblici.
Nessuno ha finora rivendicato l’attentato, polizia e magistratura hanno avviato indagini. I sospetti sono tutti rivolti verso l’Isis e il gruppo jihadista Ansar Beit Al Maqdis che si è da mesi affiliato coi miliziani neri, oppure su nuclei di ex militanti della Fratellanza Musulmana lanciati verso una sorta di jihad della disperazione, dopo la messa fuorilegge del movimento che ufficialmente resta sempre contrario a ogni forma di lotta armata. Ma c’è chi sospetta come in alcuni ‘attentati destabilizzanti’ ci possa essere anche lo zampino dell’Intelligence interna che aumentando le paure della popolazione rende agevole il disegno autoritario del presidente Sisi. Un piano volto all’attuazione di uno Stato forte verso tutti: partiti e movimenti d’opposizione, stampa, sindacati, associazioni e libera cittadinanza. Il ministro degli Esteri italiano Gentiloni, intervenendo sul tema dell’atto terroristico, ha ribadito la volontà del nostro governo di “non farsi intimidire”.
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